Il limite invalicabile
Bruno Bettelheim nacque a Vienna nel 1903. Al momento
dell’invasione nazista dell’Austria, nel 1938, fu considerato un
pericoloso avversario da rieducare, in virtù delle sue idee fortemente
influenzate da Marx e da Freud. Fu pertanto internato per un anno prima a
Dachau e poi a Buchenwald. Emigrato negli Stati Uniti, è diventato uno
dei più importanti psichiatri impegnati nella cura dei bambini
autistici.
Anche quei prigionieri che non diventavano dei musulmani,
e che in una maniera o nell’altra riuscivano a conservare il controllo
su alcuni aspetti molto limitati della propria vita, dovevano venire a
patti col nuovo ambiente. Il problema essenziale per la sopravvivenza
non era certo quello di chiedersi se si dovesse dare a Cesare quel che è
di Cesare, e nemmeno, tranne rare eccezioni, quello di quanto si
dovesse dare. Tuttavia, per sopravvivere come uomini e non come cadaveri
viventi, come esseri umani ancora degni di questo nome, anche se
degradati e umiliati, si doveva prima e sopra di ogni cosa essere
costantemente consapevoli dell’esistenza di un limite invalicabile, per
ognuno diverso, oltre il quale si doveva resistere all’oppressore,
anche se ciò significava rischiare la propria vita o addirittura
perderla. Si doveva cioè essere consapevoli che sopravvivere al prezzo
di oltrepassare questo limite avrebbe significato restare attaccati a
una vita totalmente svuotata di senso, sopravvivere non con una dignità
sminuita, ma del tutto senza dignità.
Questo limite differiva da persona a persona, e la sua posizione variava per ognuno col passare del tempo. Nei primissimi tempi del loro internamento i prigionieri avrebbero in generale considerato inconciliabile con la propria dignità servire le SS come capisquadra o come capiblocco, o indossare un’uniforme che li faceva rassomigliare alle SS. Più tardi, passati alcuni anni nel campo, questi principi concernenti aspetti relativamente esteriori venivano sostituiti da convinzioni molto più essenziali, che da allora diventavano il nucleo della loro resistenza. A queste convinzioni ci si doveva attenere con la massima tenacia. Della loro intangibilità si doveva essere costantemente sicuri, perché soltanto esse potevano servire di fondamento a un’umanità non ancora del tutto scomparsa, anche se estremamente limitata. […]
Per vivere, si doveva ubbidire a ordini degradanti e amorali; si doveva perciò essere sempre ben coscienti che si ubbidiva soltanto per rimanere vivi e immutati come persone. Di fronte a un’azione qualsiasi, perciò, si doveva sempre decidere se era veramente necessaria per la propria o per l’altrui sicurezza e se compierla era giusto, indifferente o ingiusto. Questo mantenersi vigile e consapevole delle proprie azioni – il che non poteva peraltro modificare la natura dell’azione richiesta, tranne in casi estremi – questa distanza minima dal proprio comportamento e la libertà di viverlo in maniera diversa a seconda del suo carattere, anche questo permetteva al prigioniero di rimanere un essere umano. […]
Quei prigionieri che riuscivano a non chiudere ermeticamente né il proprio cuore, né la ragione, né i sentimenti, né le facoltà percettive, ma rimanevano vigili riguardo ai propri atteggiamenti interiori anche quando non potevano permettersi di influirvi, ebbene, quei prigionieri sopravvissero, e arrivarono a comprendere le condizioni in cui vivevano. Arrivarono anche a rendersi conto di ciò che prima non avevano intuito: che essi conservavano ancora l’ultima, se non la più grande, delle libertà umane: quella di scegliere l’atteggiamento da assumere in qualsiasi circostanza.
I prigionieri che compresero pienamente questo fatto poterono rendersi conto che in ciò consisteva la differenza cruciale fra il conservare la propria umanità (e con essa, spesso, la vita) e l’accettare la morte come esseri umani (e forse anche la morte fisica): conservare la libertà di scegliere autonomamente il proprio atteggiamento verso condizioni estreme, anche quando sembrava non esserci alcuna possibilità di influire su di esse.
B.Bettelheim, Il cuore vigile. Autonomia individuale e società di massa, Milano, Adelphi, 1988, pp. 181-183. Traduzione di P. Bertolucci
Questo limite differiva da persona a persona, e la sua posizione variava per ognuno col passare del tempo. Nei primissimi tempi del loro internamento i prigionieri avrebbero in generale considerato inconciliabile con la propria dignità servire le SS come capisquadra o come capiblocco, o indossare un’uniforme che li faceva rassomigliare alle SS. Più tardi, passati alcuni anni nel campo, questi principi concernenti aspetti relativamente esteriori venivano sostituiti da convinzioni molto più essenziali, che da allora diventavano il nucleo della loro resistenza. A queste convinzioni ci si doveva attenere con la massima tenacia. Della loro intangibilità si doveva essere costantemente sicuri, perché soltanto esse potevano servire di fondamento a un’umanità non ancora del tutto scomparsa, anche se estremamente limitata. […]
Per vivere, si doveva ubbidire a ordini degradanti e amorali; si doveva perciò essere sempre ben coscienti che si ubbidiva soltanto per rimanere vivi e immutati come persone. Di fronte a un’azione qualsiasi, perciò, si doveva sempre decidere se era veramente necessaria per la propria o per l’altrui sicurezza e se compierla era giusto, indifferente o ingiusto. Questo mantenersi vigile e consapevole delle proprie azioni – il che non poteva peraltro modificare la natura dell’azione richiesta, tranne in casi estremi – questa distanza minima dal proprio comportamento e la libertà di viverlo in maniera diversa a seconda del suo carattere, anche questo permetteva al prigioniero di rimanere un essere umano. […]
Quei prigionieri che riuscivano a non chiudere ermeticamente né il proprio cuore, né la ragione, né i sentimenti, né le facoltà percettive, ma rimanevano vigili riguardo ai propri atteggiamenti interiori anche quando non potevano permettersi di influirvi, ebbene, quei prigionieri sopravvissero, e arrivarono a comprendere le condizioni in cui vivevano. Arrivarono anche a rendersi conto di ciò che prima non avevano intuito: che essi conservavano ancora l’ultima, se non la più grande, delle libertà umane: quella di scegliere l’atteggiamento da assumere in qualsiasi circostanza.
I prigionieri che compresero pienamente questo fatto poterono rendersi conto che in ciò consisteva la differenza cruciale fra il conservare la propria umanità (e con essa, spesso, la vita) e l’accettare la morte come esseri umani (e forse anche la morte fisica): conservare la libertà di scegliere autonomamente il proprio atteggiamento verso condizioni estreme, anche quando sembrava non esserci alcuna possibilità di influire su di esse.
B.Bettelheim, Il cuore vigile. Autonomia individuale e società di massa, Milano, Adelphi, 1988, pp. 181-183. Traduzione di P. Bertolucci
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