Metacomunicazione,doppio legame e disconferma

METACOMUNICAZIONE, DOPPIO LEGAME, DISCONFERMA

di Paolo Borsoni
I) METACOMUNICAZIONE

“Ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto e un aspetto di relazione di modo che il secondo classifica il primo ed è quindi metacomunicazione.”
L’operazione di definire, inquadrare, contrassegnare i messaggi, dar loro un significato di relazione, avviene per lo più attraverso mezzi non verbali, come l’atteggiamento, il gesto, l’espressione del volto, il tono, la modulazione della voce.
Il linguaggio codificato (che utilizza un codice come mediazione tra l’uno e l’altro interlocutore) ha una sintassi particolarmente adatta per comunicare a livello di contenuto; mentre il linguaggio iconico-analogico ha una netta predominanza allorché la comunicazione esprime soprattutto aspetti di relazione.
Ogni messaggio è necessariamente “pars pro toto”, una mappa che cerca di descrivere un territorio (ma la mappa non rispecchia mai tutto il territorio), ciò è particolarmente vero nella comunicazione iconica dove il “pars pro toto” assume una rilevanza essenziale: lo si può constatare in un quadro, in un racconto, in una metafora, in un discorso che cerca di suggestionare.
Ogni volta che la relazione è un problema centrale della comunicazione, il linguaggio codificato perde, in misura rilevabile, importanza a favore de linguaggio iconico, così accade quando si ama,quando si odia, quando si corteggia, quando volontariamente non si presta attenzione a qualcuno, quando si disprezza. (Una ragazza che fosse attenta solo agli aspetti di contenuto di una dichiarazione d’amore sarebbe probabilmente avviata a prendere grossi abbagli).
In ogni comunicazione i singoli interlocutori si propongono a vicenda definizioni della loro relazione e ciascuno cerca di determinare la natura della relazione e, d’altra parte, ciascuno risponde alla definizione data dall’altro confermandola o rifiutandola o modificandola. Lo scambio comunicativo sussiste già nel semplice coesistere di due persone in un medesimo spazio. L’intero comportamento in una situazione di interazione ha un valore di messaggio.
Il comportamento non ha un suo opposto: non si può non predisporre un essere verso l’Altro. Ne consegue che non è possibile non comunicare. Non esiste qualcosa che sia un non-comportamento e quindi una non-comunicazione.
Nella realtà quotidiana i contrassegni dei discorsi suggeriscono a una persona se la comunicazione, che le viene rivolta, abbia un senso amichevole o conflittuale, serio o scherzoso, pericoloso o innocuo, autentico o ambiguo. Ogni individuo, indipendentemente dalla sua volontà, è parte di una complessa rete di messaggi; per riuscire a districarsi in tale rete con sufficiente equilibrio risulta determinante una capacità di decodificare, di interpretare i contrassegni delle comunicazioni, una capacità che può essere appresa nel corso del tempo oppure mai acquisita completamente o in circostanze particolari perduta.
Caratteristica di una persona che vive uno stato di disagio psicologico profondo è quella di essere ipersensibile ai risvolti impliciti dei discorsi e dei silenzi, e nello stesso tempo di avanzare con estrema difficoltà tra i segnali di relazione. Una persona ipersensibile ai messaggi e ai contrassegni delle comunicazioni e delle relazioni, e tuttavia in crisi nel far fronte alla loro influenza, si trova in una spirale di contatti destabilizzanti, di relazioni ambigue, conflittuali, difficili da gestire. L’inattività o l’attività, le parole o il silenzio influenzano gli altri. E gli altri a loro volta non possono non rispondere.
In un sistema interattivo segnato da un continuo stato di instabilità, la problematica del reciproco condizionamento si sovrappone e va a sovrastare la dimensione dei contenuti espressi nelle comunicazioni. Quando una sequenza comunicativa, anche se in modo implicito e recondito, ha il suo sviluppo principale sul piano del reciproco condizionamento e in una disputa di potere di condizionamento, allora non ha tanto importanza ciò che viene detto, ma quello che questo significa in termini di potere nella relazione. Le preoccupazioni si rivolgono verso la supremazia o la sconfitta, la resistenza o la possibile subordinazione. Diviene in tal caso più importante chi abbia la prima o l’ultima parola, piuttosto che il contenuto espresso nella prima o nell’ultima parola. In tali modelli di relazione si afferma progressivamente una rigidità delle regole comunicative e relazionali, e contemporaneamente una chiusura del sistema in se stesso. Il legame tra i partner assume la forma di un condizionamento reciproco capace di stravolgere l’equilibrio emotivo di un componente del sistema di interazione. Le forme della lotta per il potere si esprimono attraverso risposte tangenziali, discredito, squalifiche, alternate a momenti di stasi e di apparente calma, seguite da improvvise esplosioni di aggressività, di disprezzo. Ogni tipo di risposta può servire per imporre una certa definizione della relazione e per mettere in crisi la definizione data dall’altro, per far valere la propria interpretazione dei reciproci messaggi e dei ruoli di supremazia. La violenza sotterranea psicologica emerge come annullamento della personalità del partner e in prospettiva della sua sicurezza esistenziale. L’aspetto essenziale è far valere in ogni caso la propria capacità di condizionamento, di indirizzo della relazione, di definire l’altro e se stessi nei suoi confronti.
Metacomunicare significa comunicare sulla comunicazione e anche comunicare sulla relazione.
Metacomunicare esprime inevitabilmente una valenza di potere.
Ciò può essere esemplificato attraverso un sistema di interazione diadica: se un individuo A comunica qualcosa, se ad esempio pone una domanda a un individuo B, quest’ultimo adotta un processo metacomunicativo allorché non risponde alla domanda di A ma invece fa seguire un commento, una valutazione, un giudizio sul senso complessivo della domanda dell’altro e più estesamente sull’essenza di A.
Con la metacomunicazione, B non risponde direttamente alla domanda e si colloca su un piano diverso, superiore, a quello del suo interlocutore: B commenta il ruolo, il modo di porsi, di essere, di comunicare di A.
Nella complessa rete di messaggi in cui viene a trovarsi quotidianamente qualsiasi persona, metacomunicare ha in certi casi anche un valore positivo, perché permette di sostenere comunicazioni con un impatto altrimenti destabilizzante sulla struttura psicologica personale.
Comunicare sulle comunicazioni risulta spesso l’unica possibilità per portare alla luce strutture di organizzazione dei ruoli, delle gerarchie, delle interazioni.
Di fronte a un’ingiunzione che prevede alternative tutte negative per una persona, questa può salvarsi solo metacomunicando, solo argomentando sul contesto della relazione e sulla persona che ha poste quelle alternative di fatto fasulle in quanto tutte negative.
La capacità di metacomunicare non è affatto scontata e non è affatto facile metacomunicare in particolare in situazioni di conflitto acuto con un alto coinvolgimento emotivo. Ancora più difficile è comunicare sulle comunicazioni effettuate da chi copre un ruolo dominante, autoritario, di supremazia.
Questa incapacità di verbalizzare le difficoltà, queste inadeguatezza nel comunicare quello che sarebbe necessario al fine di trarsi fuori dal contesto tutto negativo, è un punto di passaggio decisivo per entrare in una dinamica interpersonale di crisi, dove le comunicazioni non si riferiscono a fatti concreti, ad eventi delimitati, dove le divergenze non riguardano aspetti definiti della vita di relazione, ma invece abbracciano implicitamente l’intera personalità degli interlocutori. Il conflitto diviene progressivamente più profondo e tale da rendere impossibile qualsiasi mediazione o accordo o soluzione del problema.


II) DISCONFERMA

Nelle interazioni quotidiane l’impegno personale è continuamente rivolto a proporre una definizione di sé agli altri e una interpretazione della relazione in cui si è coinvolti in quel momento. Di solito tale interpretazione viene presentata come oggettiva, condivisibile; ogni individuo si rapporta di solito ai propri interlocutori in modo che questi ratifichino la sua definizione della realtà condivisa, l’accettino, la confermino, in particolare per quanto riguarda il ruolo che il soggetto stesso svolge in essa.
A tale scopo è fondamentale la comunicazione iconica: il comportamento ha anche la funzione di accreditare un’identità personale.
Segnali impliciti, involontari, sequenze di azioni, di gesti, di ammiccamenti, esprimono messaggi interpersonali importanti. Tutta la vita è un continuo definire se stessi e i propri interlocutori, e assieme alla definizione delle persone vengono definite le relazioni e la realtà. Buona parte della pura espressione di idee, o attività simbolica, è soprattutto ricostruzione del concetto di sé per proporlo agli altri perché lo ratifichino, e di accettare o rifiutare le proposte del concetto di sé che a loro volta gli altri propongono.
La continuità e la sicurezza della definizione di sé costituiscono aspetti decisivi della stabilità emotiva e dell’equilibrio personale di una persona.
Per poter avere un rapporto da essere umano a essere umano, scrive Ronald Laing, è necessario possedere un senso solido della propria autonomia e della propria identità; se non è così, ogni rapporto minaccia l’individuo di perdita dell’identità. Il “romanzo familiare”, dice Laing, spesso è solo l’insieme dei tentativi incrociati di cambiare la personalità degli altri partner. La delusione fondamentale per un individuo è credere di essere chiunque qualcuno abbia deciso che egli sia; il soggetto si ritrova in balia, condannato ad una identità e ad una definizione di sé che egli vorrebbe ripudiare senza riuscire a farlo.
I messaggi che un soggetto esprime per autodefinirsi possono essere accolti in modi variegati dall’interlocutore e dagli interlocutori. Alla complessa sequenza comunicativa che esprime il concetto “Ecco chi sono e come mi vedo” può essere risposto con una conferma, che rafforza la stabilità psicologica di chi ha espresso quel giudizio su se stesso. E il desiderio di venire confermati è un fatto essenziale nella vita di ogni essere umano. La conferma può avvenire mediante un sorriso (comunicazione visuale), una stretta di mano (comunicazione tattile), una manifestazione di simpatia (comunicazione verbale); il punto essenziale è che essa costituisce una risposta rilevante nei confronti dell’azione che l’ha determinata, essa cioè riconosce l’atto iniziale che l’ha provocata. Il soggetto che pone in essere la risposta si colloca sulla stessa linea, sullo stesso piano, in sintonia con il soggetto che ha compiuto l’azione e la definizione di sé.
In ogni gruppo sociale e ad ogni livello i soggetti che comunicano cercano di veder confermate le proprie qualità, le proprie capacità, le proprie attitudini, le proprie comunicazioni. Ogni individuo esprime il bisogno di essere confermato ed ha la prerogativa a sua volta di poter confermare o non confermare gli altri.
A livello sociale più ampio, esempi di conferma sociale sono i rituali di fronte all’autorità, i cerimoniali che comprovano sottomissione e mostrano deferenza. Rituali di deferenza e di riconoscimento dell’autorità sono da sempre stati definiti fin nei minimi particolari nelle comunità umane, dalle tribù primitive alle corti monarchiche moderne. La stabilizzazione di rituali di gerarchizzazione, la diffusione capillare di simboli, di comportamenti, di effigi funzionali alla legittimazione del potere, sono del tutto essenziali nelle organizzazioni caratterizzate da ideologie autoritarie e da strutture molto gerarchizzate. Organizzazioni con divisioni nette di status, di chance di vita, di potere, sfruttano esplicitamente la dimensione simbolica della conferma con riti di identificazione e di rappresentazione della stabilità e della potenza del sistema.
I rituali di non-conferma sono molto più complessi.
Alla sequenza comunicativa con cui un individuo esprime il concetto “Ecco chi sono. Ecco come mi vedo” si può contrapporre una visione diversa, si può negare qualche aspetto della definizione proposta. Si può addirittura criticare in toto quella definizione contrapponendone un’altra.
Con la disconferma si esprime qualcosa di molto più sottile e profondo di una semplice negazione o di una definizione diversa.
Questo tipo di comunicazione non prende in considerazione direttamente la definizione data dall’altro, non parla cioè della verità o della discutibilità di certe parti della comunicazione dell’altro, piuttosto nega in sostanza l’altro.
Mentre una replica esplicita “Hai torto” se non altro è chiara e apre in teoria un confronto su fatti concreti, la disconferma esprime implicitamente il messaggio: “Tu non esisti come entità autonoma, indipendente, capace di formulare giudizi su te stesso e su qualsiasi altro”. In sostanza: tu non hai significato.
Certe forme di reiezione esplicita comportano di fatto un riconoscimento: con esse si dimostra di aver percepito l’azione che si respinge e a cui si replica; la negazione diretta non ha carattere tangenziale, non trascura, non è necessariamente sinonimo di indifferenza o di insensibilità.
La disconferma invece non risponde direttamente alle affermazioni effettuate da qualcuno, non contrappone un diverso discorso su quanto è stato detto, pone in crisi la validità di chi ha parlato, fa intendere che tutto quanto l’altro ha detto e quanto potrà dire in futuro, in particolare su se stesso, non ha valore, non ha importanza, non ha peso, in quanto, al fondo, è proprio lui che non ha valore, non ha importanza e alcun peso.
Per far fronte alle comunicazioni di disconferma, a cui si è sottoposti, è necessaria una capacità di metacomunicare, di comprendere le ragioni che motivano i messaggi disconfermanti dell’altro per commentarli e a loro volta per metacomunicare su di essi.
Quando qualcuno mette in dubbio, in crisi, in ridicolo, il modo di essere di un altro individuo, quest’ultimo ha solo due possibilità: o accetta di dipendere dalle affermazioni del partner, sentendosi colpito da tali messaggi, oppure fa propria la scelta di commentare le comunicazioni che gli vengono rivolte, ponendo in discussione chi ha assunto il ruolo di giudice destabilizzante nei suoi confronti.
In quest’ultimo caso si realizza metacomunicazione e c’ è un rovesciamento delle parti: l’individuo che veniva sottoposto a valutazione, a critica, a giudizio, assume il ruolo diverso di chi può emettere un parere e, se il caso, una critica.
Tanto più la dimensione comunicativa in una relazione, in un sistema relazionale, si sposta dalla linearità, dalla semplicità, da scambi che riguardano i contenuti dei problemi ad una dimensione caratterizzata da un continuo scambio metacomunicativo, tanto più probabile è l’affermarsi di un rapporto distruttivo. La simulazione, la mistificazione, l’inganno giocano un ruolo decisivo nei modelli di relazione metacomunicativa. Può accadere allora che l’io si senta schiacciare e fare a pezzi da una semplice conversazione, nella quale l’oggetto del contendere non è più un contenuto migliore di un altro per avere ragione nella discussione, ma il problema è difendere la propria integrità o anche costruirsela. L’intervento dell’altro, la critica dell’altro, il semplice parlare dell’altro possono venire percepiti e interpretati come un annichilimento del pensiero e, ancora di più, del proprio essere.
Rispetto al messaggio “Hai torto”, la disconferma è meno diretta, meno decodificabile. Tale comunicazione avviene attraverso moduli non immediatamente conflittuali, ma nel contempo capaci di costruire atmosfere di insicurezza, di instabilità, di incertezza. Con la ripetizione continua di queste modalità di interazione, mese dopo mese, anno dopo anno, una persona non subisce un singolo, decisivo trauma psicologico, ma la sua autenticità e il suo valore vengono messi in dubbio, anche se in modo indefinibile e a volte addirittura involontario. Problemi relazionali risultano sottesi a modelli comunicativi in cui alle espressioni esplicite di pensieri personali, di sentimenti, si sostituiscono forme complesse di relazione come il non parlare, il non rispondere, il non guardare, il non prestare attenzione, il mettere continuamente in ridicolo. Con la disconferma si trascura di sapere che cosa un soggetto provi, che senso dia alla situazione, ai suoi messaggi, a se stesso. Ignorare, mistificare, squalificare sono forme di questo tipo di relazione. L’effetto è quello di minare la capacità di una persona di padroneggiare il rapporto con gli altri, con se stesso e con la realtà. Questa condizione esistenziale è tanto più devastante quanto più viene imposta da chi ha un ruolo predominante, decisivo, emotivamente coinvolgente nel sistema relazionale, per cui legittime sono le sue interpretazioni, non criticabili le sue affermazioni e la sua prerogativa di mettere in dubbio, di ridicolizzare, di squalificare. La perdita di sé è il risultato di tali processi, quando divengono esperienza comune e ripetuta con la negazione delle qualità e delle capacità di una persona, delle sue azioni, delle sue aspirazioni, dei modelli mentali coi quali tale persona codifica e decodifica la realtà. La fase finale di questi processi si compie allorché qualcuno viene posto in una posizione insostenibile, quando indipendentemente da quanto dica, faccia, avverta, indipendentemente dal significato che attribuisca alle situazioni, sono i suoi sentimenti, i suoi pensieri, i suoi messaggi ad essere spogliati di validità. Se tale genere di comunicazioni costituisce l’essenza regolare del processo comunicativo di relazione, il soggetto subordinato non è più sicuro di quanto egli stesso sia, del fatto che quanto dice sia effettivamente rispondente ai suoi pensieri, alle sue convinzioni.
La disconferma si realizza nella correzione continua dei messaggi di una persona, una correzione effettuata da chi ha un ruolo predominante e legittimo, così che la persona subordinata vede continuamente riproporre ciò che afferma e vuole, ma in modo diverso dalle sue intenzioni, attraverso un filtro di censure e di interpretazioni che non gli appartengono. Il soggetto subordinato viene sospinto in un posizione incerta, instabile anche nel merito delle cose che egli stesso pensa ed afferma: solo quando egli dice ciò che va bene all’altro dominante riceve segnali di approvazione, di sicurezza, di stabilità; questa situazione lo induce ad identificarsi nell’altro, nelle cose che questi dice, fa, vuole.
La squalifica delle capacità di un soggetto di costituirsi come identità personale ha l’effetto di una condizione esistenziale attraversata da indecisioni, difficoltà di scegliere, di assumere strategie personali di comportamento. Un modello interattivo fondato sulla disconferma e su una continua sequenza di disconferme incide sulla sicurezza esistenziale attraverso la quale una persona è in grado di affrontare la vita e le difficoltà con una chiara consapevolezza dell’identità di sé e degli altri.
In luogo di un senso solido di rapporto e di attaccamento nei confronti dell’altro, fondato su una genuina reciprocità, si p in uno stato di dipendenza “ontologica”: si dipende dall’altro per esistere, e rispetto a tale dipendenza la sola alternativa è il distacco, l’isolamento.
Un senso solido della identità personale viene determinato dalla sensazione di riuscire a produrre un mutamento nelle persone con cui si viene in contatto. Al contrario un senso di impotenza e di instabilità si realizza allorché un soggetto prova non tanto la mancanza della presenza dell’altro, ma la mancanza della propria presenza come altro per l’altro.
Se nell’esperienza intima, profonda dell’amore si ha la sensazione di possedere con l’altra persona il mondo intero e soprattutto di costituire sia pure per pochi istanti l’intero mondo per l’altra persona, nella disconferma l’essere umano sente che non gli viene riconosciuto alcun significato, alcun peso, alcuna importanza, alcuna rilevanza. Un sentimento di frustrazione sorge se fallisce il tentativo di trovare l’altro senza il quale è impossibile o senza il quale si ritiene impossibile stabilire una soddisfacente identità personale.


III) DOPPIO LEGAME

“Un giovanotto che si era abbastanza ben rimesso da un accesso di schizofrenia ricevette in ospedale una visita di sua madre.     Contento di vederla, le mise d’impulso il braccio sulle spalle, al che ella s’irrigidì.  Egli ritrasse il braccio, e la madre gli domandò :«Non mi vuoi più bene?».   Il ragazzo arrossì, e la madre disse ancora: «Caro, non devi provare così facilmente imbarazzo e paura dei tuoi sentimenti». Il paziente non poté stare con la madre che per pochi minuti ancora, e dopo la sua partenza aggredì un’inserviente e fu messo nel bagno freddo”.
(da “Ecologia della mente” di Gregory Bateson)
È chiaro che questo epilogo si sarebbe potuto evitare se il giovane fosse stato capace di dire: «Mamma, è evidente che tu ti senti a disagio quando ti metto il braccio sulle spalle e che ti è difficile accettare da me un gesto d’affetto»; ma lo schizofrenico non può avvalersi di questa possibilità di metacomunicare; il suo stato di profonda soggezione gli impedisce di analizzare il comportamento comunicativo dell’altro, mentre la madre analizza il comportamento del figlio e lo obbliga a subire e a gestire una complicata sequenza comunicativa articolata su inviti e dinieghi e sulla metacomunicazione delle reazioni dell’altro a tale susseguirsi di inviti e rifiuti.
Per Bateson le caratteristiche di una situazione di doppio legame sono:
a) l’individuo è coinvolto in un rapporto intenso, un rapporto in cui egli sente che è d’importanza vitale saper distinguere con precisione il genere di messaggio che gli viene comunicato, in modo da poter rispondere in modo appropriato, sullo stesso piano comunicativo;
b) l’individuo si trova prigioniero in una situazione in cui l’altra persona che partecipa al rapporto emette, allo stesso tempo, messaggi di due ordini diversi, uno dei quali nega l’altro;
c) l’individuo è incapace di analizzare i messaggi al fine di migliorare la propria capacità di discriminare a quale ordine di messaggio debba rispondere, cioè egli non è in grado di produrre un enunciato metacomunicativo.
Per Gregory Bateson e Paul Watzlawick il doppio legame presenta qualcosa di diverso rispetto a situazioni di conflitto del tipo approccio-approccio, approccio-evitamento, evitamento-evitamento.
La radice dei conflitti è sempre rintracciabile in una contraddizione di alternative che sono state offerte o imposte, con situazioni che producono effetti comportamentali come l’indecisione, la scelta sbagliata, la difficoltà cronica di scegliere.
Le patologie peculiari del doppio legame si instaurano allorché il dilemma diventa paradossale.
Una situazione aperta di conflitto offre la possibilità almeno teorica di compiere una scelta.
L’ingiunzione paradossale, spesso implicita, fa fallire qualsiasi scelta.
In un conflitto aperto la scelta è comunque una soluzione.
Nel doppio legame la scelta non è possibile.
Possiamo porre a confronto la definizione proposta da Gregory Bateson di “doppio legame” con quella di “posizione insostenibile” proposta da Ronald Laing.
“In una determinata situazione della sua vita - scrive Laing - una persona giunge a sentirsi in una posizione insostenibile: non può fare un movimento né restare immobile senza essere assediata da pressioni e pretese contraddittorie e paradossali, freni ed impulsi sia interni, provenienti da lei stessa, sia esterni e provenienti da coloro che la circondano. Si trova, per così dire, nella posizione di scacco matto”.
Bateson, rispetto a Laing, imposta una definizione che sul piano logico-formale è più complessa.
Sia Bateson che Watzlawick analizzano gli aspetti logico-paradossali formali delle comunicazioni.
Laing mette in luce soprattutto le dinamiche esistenziali delle difficoltà e dei conflitti di relazione. Bateson e Watzlawick fanno riferimento a Laing per i casi clinici, concreti, di natura familiare e psichiatrica, sui quali discutere le tesi proposte.
Laing fa riferimento a Bateson per il tentativo di una fondazione linguistico-formale del concetto di “posizione insostenibile”.
Quando una persona deve subire ingiunzioni contraddittorie alternative tutte negative, viene collocata in una posizione che viola le aspettative di controllo sulla realtà, viola il principio della possibilità di risolvere i problemi attraverso le scelte. Quando una struttura di alternative non presenta alcuna soluzione sarebbe necessario trarsi fuori dal contesto di comunicazione per commentare la dinamica relazionale, rifiutandosi di scegliere tra soluzioni inevitabilmente negative, sarebbe necessario vedere dall’esterno l’organizzazione completa del problema e della relazione e del sistema. Ma un comportamento del genere richiede una stabilità emotiva, una capacità di decodifica, una sicurezza esistenziale in grado di produrre una scelta di sequenze di azioni che interrompono la routine di comportamenti dove ciascun comportamento è conseguente allo stimolo che l’ha provocato. In tali situazioni risulta in maniera particolare accentuata la necessità di discernere tra possibilità diverse, di prevedere e di determinare il processo reale in cui si è coinvolti. Questa capacità è una caratteristica del singolo, una capacità che una persona può avere acquisito o non acquisito o perduto attraverso esperienze personali.
Per un individuo sottoposto a combinazioni di messaggi destabilizzanti, a comunicazioni che mettono in crisi la sua sicurezza esistenziale, con ingiunzioni contraddittorie e distruttive, il presente inaccettabile, impossibile, sconfina in un futuro contrario a tutte le aspettative. Tale convinzione può avere un riscontro reale, effettivo, in una situazione drammatica, oppure essere soltanto frutto di immaginazione, ma in ogni caso decisiva è la sensazione di essere in trappola, in una rete di relazioni che impongono inevitabilmente sconfitta, impotenza, disagio, nullità, paura, esasperazione, rabbia, assenza di futuro. Le interazioni con gli altri partner divengono allora esperienze sottili, difficili da gestire. In mezzo a un groviglio di messaggi incoerenti, di interventi destabilizzanti, nell’influenza di comunicazioni contraddittorie con un alto valore emotivo ed affettivo c’è da una parte il bisogno di trarsi fuori da tali relazioni, in quanto distruggono aspirazioni, desideri, possibilità, aspettative, progetti, dall’altra l’incapacità di sottrarsi a un campo di relazioni interpersonali che contemporaneamente garantisce sicurezza e annichilimento, continuità e malessere. La situazione viene segnata da un risentimento inespresso, da un’aggressività conflittuale, che non trovano la forza di esprimersi. Quanto più terrore si ha di soffocare, tanto più paura si ha di fuggire, si cerca la sicurezza in ciò che si odia, come chi pone la mano su una piastra bollente e invece di ritirarla ve la preme ancora più forte, come se quella fosse l’unica possibilità. La dipendenza ostile è il sottofondo di questa condizione esistenziale, la dipendenza permeata di ostilità; affetto e ostilità vengono continuamente combinati e distorti in un susseguirsi di comunicazioni ambigue e abnormi. C’è difficoltà a comprendere le intenzioni degli altri, ma anche le proprie intenzioni, si è feriti da una constatazione e valutazione dei sentimenti degli altri, ma anche svuotati dai propri sentimenti. Non si può decidere su di sé perché altri condizionano questa possibilità, ma allo stesso tempo non si sa decidere su di sé.
Si devono accettare ingiunzioni contraddittorie, comandi inaccettabili, ma in sostanza si fanno propri tali condizionamenti; si costruisce l’esistenza in modo contrario a tutte le proprie aspettative, a tutti i progetti personali. La condizione di falsità,di ambiguità,di contraddittorietà diviene profonda fino a intaccare l’essere, con l’impossibilità di rimanere integri, di prendere decisioni lineari, di assumere un comportamento coerente. La caratteristica del rapporto con gli altri diventa la mancanza di completezza e di autenticità; la regola diviene quella dell’assenza di interazioni vere; la possibilità sempre imminente è quella della devastazione di ogni capacità attiva.
Se X è inaccettabile e non-X impossibile, non resta che il distacco dalla realtà di X e non-X.
Si è fatti a pezzi da relazioni con un significato troppo intenso per poter essere eluso, evitato, neutralizzato. Non si può esprimere alcunché di positivo, ma solo azioni di protesta permeate di risentimento contro gli altri, contro la realtà, contro se stessi.
Nel doppio legame c’è il senso del “nulla è possibile”.
L’ingiunzione paradossale fa fallire ogni scelta.
Nel doppio legame si è puniti quando si è nel giusto circa l’interpretazione dei messaggi, si è in torto nel momento stesso in cui ci si comporta in modo coerente e conseguente. Con la disconferma, con il doppio legame vengono messe in crisi le capacità di discriminare i segnali che identificano i messaggi, attraverso i quali l’io distingue i fatti dalla fantasia, il letterale dal metaforico, il senso scherzoso da quello serio, l’amichevole dal conflittuale. La difficoltà di interpretare adeguatamente la dinamica comunicativa si traduce in un mondo sfuocato dove nessun messaggio è di un tipo definito, in un mondo in cui è indispensabile compiere un’opera di identificazione di tutti i messaggi, un’identificazione completa, totale di ogni messaggio in cui si è coinvolti con un’attenzione ossessiva.
Dai casi concreti, di natura familiare, sociale, psichiatrica riportati da Ronald Laing per discutere le proprie tesi emerge implicitamente, e più fortemente di quanto mettano in luce Bateson e Watzlawick, la rilevanza fondamentale dell’affettività in tutte le sue dinamiche interattive. Al di là della semplice e scarna enunciazione di Bateson , “l’individuo nel doppio legame è coinvolto in un rapporto intenso”, in Laing c’è il macigno dell’affettività, la centralità del bisogno di amore e di sicurezza, attraverso l’affettività vengono filtrati tutti i rapporti interpersonali più importanti.
Quando intervengono problemi di sicurezza esistenziale in situazioni ad alto coinvolgimento affettivo, emotivo, vengono messi in discussione i cardini della sicurezza esistenziale. Il problema dell’affettività funge da spartiacque tra la realtà della logica formale e paradossale coi suoi teoremi ed assiomi e la realtà quotidiana concreta con i suoi problemi ed esasperazioni.
Per questo sembrano meno convincenti le argomentazioni di Watzlawick e di Bateson sul doppio legame e sulla disconferma allorché si discostano da dinamiche interpersonali di crisi, dove centrale ed essenziale è l’affettività, per collocarsi sul piano logico-matematico.
La realtà quotidiana dei legami sociali è attraversata da disconferme e doppi legami; tuttavia essi creano problemi profondi e destabilizzanti solo quando il sostrato in cui si collocano è costituito da situazioni in cui l’affettività è il fattore determinante, decisivo per una persona.


IV) DISATTENZIONE SELETTIVA

In “Pragmatica della comunicazione umana” Watzlawick riporta molti esempi di doppi legami tratti dalla vita quotidiana. Uno di questi, oltre ad essere divertente, suggerisce implicitamente il migliore antidoto per il doppio legame.
Un soldato utilizzato come barbiere in una caserma riceve l’ordine dal proprio capitano:   “Radere in giornata tutti i soldati della compagnia che non si radono da soli! E solo quelli!”.
Il tutto naturalmente con uno sbattere di tacchi tale da non lasciare spazio a “se” e a “ma” né adito a precisazioni e puntualizzazioni.
(Chi ha esperienza di vita militare troverà questa vicenda molto meno inverosimile di quanto sembri).
Il soldato-barbiere, se ha un po’ di logica-matematica in zucca, si ritrova in una situazione paradossale:  “Come mi regolo con me stesso?!”.
Se poi, oltre ad avere un po’ di logica in testa, è un tipo rigidamente ossequioso agli ordini e anzi predisposto ad identificare letteralmente i messaggi, a ricercare nelle relazioni che lo vedono partecipe sempre il senso più completo e preciso di quanto gli viene chiesto di fare allora è pressoché spacciato.
Gli elementi essenziali di questa storia propongono le caratteristiche di un doppio legame:
a) una forte relazione complementare (ufficiale-subordinato);
b) un’ingiunzione che deve essere disubbidita per essere ubbidita (se rade se stesso il soldato-barbiere deve non radersi, ma se non rade se stesso deve radersi);
c) l’impossibilità di uscire dal sistema di relazione, cioè di metacomunicare sulla comunicazione, perché sarebbe un atto grave di insubordinazione.
In questo esempio di doppio legame riportato da Watzlawick c’è ironia ma manca un aspetto essenziale su cui si è posto finora l’accento: l’affettività famigliare. È l’affettività profonda che trasforma la trappola del doppio legame nel baratro in cui una persona viene spinto psicologicamente.
Proprio l’ambientazione militare suggerisce la via di uscita dal doppio legame suggerito da Watzlawick e in generale propone un metodo fondamentale di uscita dai grovigli metacomunicativi.
La soluzione è una specifica filosofia militare: fare finta di niente, ovvero la “disattenzione selettiva”.
Regola non scritta ma universale della vita militare è di far finta che certi ordini non esistano, di non prestare attenzione ad alcuni messaggi ed ingiunzioni, in particolare di non chiedere mai il permesso di fare qualcosa che ufficialmente è proibito ma che tutti regolarmente fanno né spiegazione di un ordine palesemente insensato.
Molto significativamente di “disattenzione selettiva” parla il grande psicoanalista americano Harry S. Sullivan, che individua nella capacità di “disattenzione selettiva” il prerequisito per ogni azione efficace e per la conservazione del senso di sicurezza personale.
La disattenzione selettiva costituisce quindi il requisito per non venire coinvolti in processi  di ultra-identificazione di tutti i messaggi, che spesso anche nei rapporti quotidiani sono composti da squalifiche, ambiguità, contraddittorietà, grovigli metacomunicativi, ma a cui è salutare, molto salutare, non prestare attenzione.


V) PARADOSSI

“Tutti i Cretesi sono bugiardi”. (Epimenide di Creta, VI secolo a.C.)
Se Epimenide dice il vero dice il falso, ma se dice il falso dice il vero.
Il paradosso di Epimenide presentato a un calcolatore provoca una risposta del tipo “sì..no..sì..no..sì..no..”, finché non finisce l’inchiostro.
Nella realtà pragmatica tuttavia Epimenide non enuncia alcuna verità sconvolgente, ma un problema: quello di molti, tanti Cretesi, compreso Epimenide, col difetto di dire forse troppe bugie.
Nelle relazioni umane non è tanto la paradossalità logico-formale a creare problemi, ma piuttosto le ingiunzioni, i comportamenti, i giudizi,che sviluppano atmosfere cariche di ambiguità, di mistificazione, di insicurezza, di instabilità. Si può allora parlare più propriamente di paradossi pragmatico-comunicativi che, più dei paradossi logico-formali, hanno il peso decisivo nell’ambito di comportamenti, di emozioni, delle relazioni, dell’affettività. La discontinuità tra la realtà logico-formale e la realtà pragmatico-comunicativa è esemplificabile dicendo che solo nella prima si può pensare a qualcuno come bugiardo in permanenza, e quindi come portatore stabile del valore logico di non-verità, mentre nella realtà concreta, quotidiana, anche un bugiardo, come forse era Epimenide, può dire a volte il vero, eventualmente sulla propria inattendibilità.
Ronald Laing è attento soprattutto alla dimensione conflittuale degli aspetti di imposizione e di sottomissione, di dipendenza e di violenza, con le atmosfere comunicative permeate da confusioni, da fraintendimenti, da mistificazioni, da simulazioni, da inganni più o meno impliciti.
Bateson e Watzlawick fanno riferimento alla logica formale per tentare di stabilire indicazioni generali sulla teoria della comunicazione, così da portare questo ambito di ricerca da un puro livello descrittivo delle vicende interpersonali e familiari ad uno spazio di coordinate conoscitive complessive attraverso le quali cogliere dinamiche che governano sistematicamente relazioni e interazioni sistemiche.
In “Pragmatica della comunicazione umana” di Watzlawick, la Teoria matematica dei Tipi Logici di Whitehead e Russell finisce con l’assumere una rilevanza epistemologica fondamentale. I saggi di Bateson riuniti in “Ecologia della mente” hanno il loro nucleo concettuale sulla Teoria dei Tipi Logici, utilizzata per descrivere i meccanismi fondamentali della comunicazione e dell’apprendimento. Tuttavia nella sua opera “Mente e natura”, Bateson, nella ricerca di una fondazione epistemologica della sua teorizzazione, lascia in secondo piano la Teoria dei Tipi Logici, di impostazione matematico-formale, e si rivolge al modello stocastico. Questa duplicità del tentativo di fondare la teorizzazione sia su una base logico-formale di derivazione matematica, la Teoria dei Tipi Logici, sia sui modelli stocastici, processi non deterministici per tentativi ed errori, rispecchia un’alternativa importante.
Si può osservare come Bateson in “Ecologia della mente”, pur facendo continuo riferimento alla Teoria dei Tipi Logici, parli dell’apprendimento come di un processo per tentativi ed errori. La teoria della conoscenza come continuo processo per tentativi ed errori è la prima e fondamentale asserzione di Bateson.
“Stocastico” (dal greco stochazein, tirare al bersaglio con l’arco) significa diffondere gli eventi in modo parzialmente casuale, sicché alcuni di essi hanno esito più favorevole. Se una successione di eventi combina una componente casuale con un processo selettivo in modo che solo certi risultati del casuale possano perdurare, tale successione viene detta stocastica.


(bibliografia:
Gregory Bateson "Verso un'ecologia della mente"
Gregory Bateson "Mente e natura"
Ronald Laing "L'io e gli altri"
Ronald Laing "L'io diviso"
Paul Watzlawick "Pragmatica della comunicazione umana"
Paul Watzlawick "Change"
Paolo Borsoni  "Metacomunicazione, disconferma, doppio legame, nelle teorie di Bateson, Laing, Watzlawick", in "La Critica    Sociologica", n.90-91, Roma 
Paolo Borsoni "Ricerca di ecologia di comunicazione" Ianua editrice, Roma)





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