Il monachesimo in Alto Adige

Monachesimo in Alto Adige Estratto da "Ordini religiosi in Alto Adige" di Leone Sticcotti - da "Il Segno" Settimanale altoatesino “Voi non avete solo una gloriosa storia da ricordare e da raccontare, ma una grande storia da costruire! Guardate al futuro, nel quale lo Spirito vi proietta per fare con voi ancora cose grandi.” (n.110). E’ l’appello fiducioso che Giovanni Paolo II rivolge alle persone consacrate, donne e uomini, anziane e giovani, al termine della Esortazione apostolica post-sinodale “VITA CONSECRATA”. Tale documento, che è datato 25 marzo 1996 e si pone a conclusione del Sinodo dei vescovi del 1994 dedicato alla vita consacrata (Sinodo che fa seguito a quello del 1990 sulla formazione sacerdotale e a quello del 1987 sui laici), inizia col ricordare che “Lungo i secoli non sono mai mancati uomini e donne che, docili alla chiamata del Padre e alla mozione dello Spirito, hanno scelto questa via di speciale sequela di Cristo, per dedicarsi a lui con cuore “indiviso” (cf. 1Cor 7,34). Anch’essi hanno lasciato ogni cosa, come gli apostoli, per stare con lui e mettersi, come lui, al servizio di Dio e dei fratelli. In questo modo essi hanno contribuito a manifestare il mistero e la missione della Chiesa con i molteplici carismi di vita spirituale e apostolica che loro distribuiva lo Spirito Santo, e di conseguenza hanno pure concorso a rinnovare la società.” (n. 1) Già il Concilio Vaticano II, nel decreto PERFECTAE CARITATIS sul rinnovamento della vita religiosa aveva ricordato che “Fin dai primi tempi della Chiesa vi furono uomini e donne che per mezzo della pratica dei consigli evangelici vollero seguire Cristo con maggiore libertà ed imitarlo più da vicino, e condussero, ciascuno a loro modo, una vita consacrata a Dio. Molti di essi, sotto l’impulso dello Spirito Santo, vissero una vita solitaria o fondarono famiglie religiose che la Chiesa con la sua autorità volentieri accolse ed approvò. Cosicché per disegno divino si sviluppò una meravigliosa varietà di comunità religiose...”(n. 1) La nascita e lo sviluppo di tali comunità è patrimonio prezioso della Chiesa universale, del suo articolarsi in Chiese locali. Parte di tale patrimonio è appannaggio anche della nostra diocesi, perchè la sua storia, oltre che di vescovi, di clero e laici, è anche di comunità religiose, che nel corso dei secoli si sono stabilite nella “terra tra i monti”. “Il Segno” ha dato negli anni scorsi un contributo di conoscenza alla storia della diocesi attraverso la successione dei vescovi. Di recente ha offerto un ulteriore contributo con un numero speciale sulle aggregazioni laicali. Spera ora di fare cosa gradita ai lettori narrando come nei secoli la Chiesa locale, ma anche la società, si è arricchita con il sorgere e lo stabilirsi di comunità religiose maschili e femminili, nella loro varietà di modi di vivere, di pregare e di agire, di vita contemplativa e vita attiva. E raccontare tale storia può essere un servizio particolarmente significativo, in questo tempo di preparazione al Giubileo del 2000, specie nel 1998, anno dedicato allo Spirito Santo, che da sempre soffia quando e dove vuole. Nel viaggio che faremo insieme verremo a conoscere come nella “terra tra i monti” si siano stabilite alcune comunità dei grandi ordini monastici ma anche realtà minori ma esercitanti un ruolo importante per quanto concerne l’apostolato. Alcune comunità nel corso dei secoli cessarono la loro attività o furono soppresse, altre ne sorsero e sono tuttora attive. Tutte insieme contribuiscono a formare quel prezioso mosaico che è la presenza cristiana in questa terra. Benedettini Bendettini a San Candido A metà dell’VIII secolo due secoli dopo la morte di Benedetto da Norcia erano più di mille i suoi monasteri in Europa: tra gli insediamenti di monaci contadini, che dissodavano i terreni, aprendo la strada al ripopolamento e a nuove forme di vita organizzata, vi si aggiunge dal 769 in Val Pusteria il monastero di San Candido, il primo cenobio istituito nella “terra tra i monti”. Agli inizi del VII secolo la Pusteria orientale era stata teatro di ripetuti scontri armati tra Baiuvari e Slavi; questi ultimi erano stati ricacciati verso la conca di Lienz; ma il pericolo persisteva, mentre la zona di San Candido pare sia rimasta pressoché deserta fino al tardo VIII secolo. Il duca dei Baiuvari Tassilone III (748-788), nipote del re dei Franchi Pipino il Breve, durante il viaggio di ritorno dalla visita a Desiderio, re dei Longobardi, con il quale aveva stretto alleanza, fece tappa a Bolzano e in quell’occasione, circondato dai cortigiani, donò ad Attone, abate del convento benedettino di Scharnitz (fondato nel 763), la località di San Candido, definita a quel tempo “locus India” (in seguito Inticha, da cui Innichen) con tutto il territorio tra Monguelfo e Anras, nella Pusteria orientale. Fece la donazione con un preciso scopo, “propter incredulam generationem Schlavanorum ad tramitem veritatis deducendam”, condurre sulla via della verità il miscredente popolo degli Slavi. Altro scopo della donazione era la colonizzazione del territorio ancora disabitato e incolto; nei primi anni il monastero dovette perciò, per il rigido clima dell’alta Pusteria e per l’isolamento della zona, affrontare non poche difficoltà. Costruito il monastero con annessa chiesa in onore di San Pietro e di San Candido (una reliquia di quest’ultimo santo fu inviata da papa Adriano I (772-795) si pose mano con sollecitudine, secondo la Regola benedettina “Ora et labora”, alla duplice opera di coltivazione ed evangelizzazione. L’abate Attone godè di alta considerazione, fu ambasciatore del re dei Franchi Carlo Magno presso il Papa e nel 783 fu chiamato a succedere al grande Arbeo sulla cattedra vescovile di S. Corbiniano a Frisinga. Il vescovo Attone (783-811), pur rimanendo a capo del monastero di San candido e titolare di tutte le proprietà, lo incorporò nella chiesa episcopale di Frisinga con tutti i vasti possedimenti fondiari. Per la direzione del convento fu di volta in volta incaricato un decano e per il sostentamento furono assegnati dei beni. L’amministrazione dei restanti possedimenti fu affidata ai cosiddetti “avvocati” (Vögte). Il monastero fu tolto dall’imperatore Carlo Magno (800-814) a Frisinga e assegnato a Salisburgo, ma nell’816 fu Ludovico il Pio, figlio e successore di Carlo Magno, a riconsegnarlo a Frisinga. Le proprietà si accrebbero ulteriormente per altre donazioni, come quella del nobile vipitenese Quartinus, che nell’828 donò grandi possedimenti in Val d’Isarco. Tra i maggiori benefattori vi è però l’imperatore Ottone I (962-973), che per le grandi donazioni che fece fu considerato il secondo fondatore del convento; fino a tempi recenti gli è stato dedicato un giorno commemorativo. Nel 965 l’imperatore Ottone I conferì al monastero l’immunità giudiziaria e i poteri comitali sul territorio, facendo di questo quasi uno staterello feudale autonomo a cavallo della Sella di Dobbiaco. Sull’attività dei benedettini a San Candido non ci sono fonti storiche. Pur dipendendo dal vescovo di Frisinga e guidato da un decano, il convento era sotto la direzione pastorale del vescovo della diocesi di Bressanone. Se il vescovo Alim di Sabiona fu menzionato nell’atto di fondazione del 769, del quale fu tra i sottoscrittori, anche nei successivi atti importanti per il monastero i vescovi di Bressanone appaiono nell’elenco dei testimoni. Il lavoro missionario dei benedettini di San Candido deve aver dato alcuni frutti se nell’XI secolo il beato sacerdote Batho deve aver operato da San Candido come apostolo degli Slavi, finché fu chiamato a Frisinga. Durante l’episcopato del vescovo Ottone di Frisinga (1137-1158) e del beato vescovo Artmanno di Bressanone (1140-1164) il monastero di San Candido fu trasformato in collegiata (capitolo di canonici). Entrambi i vescovi, quali grandi riformatori della vita religiosa delle rispettive diocesi, erano consci della decadenza cui, similmente ad altri, anche il monastero di San Candido si trovava. Il vescovo di Frisinga come superiore del convento era troppo lontano per poter debitamente intervenire e gli interessi pastorali esigevano una trasformazione dalla vita contemplativa a quella attiva. Fu papa Innocenzo II (1130-1143) ad autorizzare il 20 novembre 1141 il vescovo Ottone di Frisinga a far occupare conventi e chiese con sacerdoti. Questa bolla permise al vescovo Ottone di intraprendere la trasformazione del monastero di San Candido in una collegiata. Prevosto, decano e canonici, non essendo tenuti alla vita monastica, riformarono completamente il complesso claustrale e probabilmente rinnovarono anche la chiesa, ricostruendola ampliata in stile pienamente romanico ed aggiungendovi, come voleva la moda del tempo, l’ampia cripta che, conservatasi sino a noi, rimane a testimonianza del rinnovamento di allora. La collegiata di San Candido è la chiesa romanica che meglio conserva le sue forme originarie del XII e XIII secolo, sì da costituire il più insigne monumento romanico della provincia e anche di tutto il Tirolo storico. Delle costruzioni altomedioevali del convento son rimasti pochi resti: le fondamenta ed alcune mura della chiesa conventuale (che sono contenute nella attuale chiesa romanica), la cripta; un antico edificio presso il lato settentrionale della collegiata, risalente al X secolo, ospita un Museo nel quale sono in mostra interessanti cimeli della lunghissima storia del monastero e del capitolo. Scheda Il monachesimo femminile Parallelamente al monachesimo maschile si sviluppò sin dal IV secolo la figura della donna monaco, la donna che scegliendo la verginità era poi naturalmente portata a uno stile austero di vita, a una preghiera assidua, a uno studio altrettanto assiduo della Bibbia. La prima comunità monastica femminile di cui si ha notizia è quella fondata nel 340 in Egitto da Pacomio, per sua sorella Maria, la quale dirigeva come badessa la comunità nella quale le monache seguivano lo stile apostolico: vita in comune, amore fraterno, povertà, lavoro manuale, obbedienza a un’autorità ecclesialmente riconosciuta. In Italia è invece Scolastica, sorella di Benedetto da Norcia, a fondare il primo monastero di monache benedettine, nei pressi di Montecassino. L’ordine femminile di San Benedetto si diffuse in analogia a quello maschile ed ora le “monache nere”, come sono denominate per il loro abito, si trovano in tutti i continenti. Castel Badia E’ dell’ordine benedettino, dopo quello maschile di San Candido, anche il primo monastero femminile della diocesi di Bressanone. Fu il conte Volkhold della Pustrissa (Pusteria), fratello di Hartwig, vescovo di Bressanone, a fondare, per la salvezza dell’anima dei suoi genitori, in zona Suanapurch, un colle presso San Lorenzo di Sebato, un monastero femminile; tramite il suo avvocato Heimo, in presenza del vescovo Hartwig e del fratello Engelbert, conte della Pusteria, donò alla chiesa della beata Maria molti possedimenti a Marebbe con rispettiva giurisidizione, nonchè molti beni a Castel Badia. Questa prima dotazione risale agli inizi del 1039, prima del 30 gennaio, giorno in cui morì il vescovo Hartwig. Per garantire maggiormente la propria donazione Volkhold chiese al nipote, il vescovo Uldarico II di Trento (1022-1055) di assumere l’avvocazia (protezione) del monastero. Il 3 giugno 1029, festa di Pentecoste, Uldarico giunse a Castel Badia e tenne la prima solenne funzione nella chiesa. La prima badessa fu Wichburg , nipote del fondatore, monaca a St. Georgen. Volkhold donò al monastero altri beni, che assicurarono cospicue entrate; si ritirò poi a Castel Badia dove morì, pare nel 1041, secondo una pietra sepolcrale murata nella facciata della chiesa di San Lorenzo. La prima chiesa di Castel Badia sarebbe stata costruita nel 1090 e consacrata dal vescovo di Trento, Adalbero (1084-1104). L’avvocazia da parte di Trento si indebolì gradualmente, mentre i conti di Gorizia quali signori territoriali in Pusteria fecero valere la loro autorità giurisdizionale ed entrarono in conflitto permanente, così come lo stesso convento che di fronte a tutti difendeva i propri privilegi, con il principato vescovile di Bressanone. Sotto la badessa Hildegard (1093-1132) il vescovado di Bressanone aveva assunto il potere temporale sui territori di Marebbe e Badia appartenenti a Castel Badia. Ma il fondatore Volkhold aveva trasferito l’avvocazia su tali territori al vescovo di Trento, e ciò portò presto ai primi contrasti tra i vescovi di Trento e di Bressanone da una parte e tra il monastero e il vescovo di Bressanone dall’altra. Queste ed altre inutili contese si ripeterono durante l’intera storia del monastero di Castel Badia. Furono chiamati in causa nelle varie controversie anche il papa e l’imperatore. Nel 1391 i vescovi di Trento cedettero in feudo alla badessa i “regalia et temporalia” del monastero, ma soltanto il 24 aprile 1459 il vescovo Giorgio di Trento trasferì formalmente l’avvocazia al principe territoriale del Tirolo, il conte Sigismondo. Alle controversie tra la sede vescovile di Bressanone e le badesse del convento di monache benedettine sui diritti loro spettanti, nel 15° secolo si aggiunsero le contese tra il principe territoriale e il vescovo, che ebbero il loro tragico punto culminante nel noto conflitto tra la badessa Verena von Struben e il vescovo di Bressanone cardinale Niccolò da Cusa (1450-1464). Il conflitto si accese sui diritti di pascolo tra il convento e i contadini di Marebbe, i quali si erano rivolti al vescovo, mentre alle monache era stato promesso aiuto da parte del principe territoriale. Avendo poco dopo la presa di possesso della diocesi Niccolò da Cusa preteso l’autorità sul monastero anche su questioni temporali; le monache si appellarono al principe territoriale. Allora il conflitto si spostò su questioni spirituali. Niccolò da Cusa nel 1451 era stato nominato da papa Niccolò V(1447-1455) anche legato papale per l’attuazione della riforma dei conventi. Il 2 maggio 1452 il cardinale prescrisse, sotto minaccia di scomunica, di osservare strettamente la clausura che fino allora non era stata osservata. Le monache di Castel Badia, che provenivano dalla nobiltà, erano abituate ad avere rapporti col mondo esterno, visitavano i parenti, partecipavano a processi, andavano a nozze, frequentavano bagni pubblici. Inoltre affermavano di continuo di non aver fatto voti di stretta clausura. La badessa Verena vantò i privilegi confermati dal papa e dall’imperatore, facendo valere che non era il vescovo di Bressanone ad avere diritto sul monastero ma quello di Trento. Il conte del Tirolo Sigismondo riuscì a far prorogare il termine per l’attuazione delle riforme nel monastero e agli abitanti di Marebbe intimò di non continuare ad opporsi alla badessa, altrimenti avrebbe esercitato la propria autorità di signore territoriale. Il vescovo di Bressanone si recò invece a Roma presentando a papa Niccolò V le proprie lagnanze contro il convento. Quando nel 1453 il vescovo sollecitò l’attuazione della riforma, le monache lo indirizzarono al principe territoriale, col quale poteva dirimere la questione. Il 23 settembre il cardinale notificò al convento una visita dell’abate Lorenzo di Abhausen, di Michele di Natz e di altri ecclesiastici. Costoro lessero alle monache la lettera redatta in latino, mentre le monache volevano il testo in lingua tedesca. Persistendo le monache nel loro atteggiamento contrario alla visita, si stabilì una nuova visita alla quale avrebbero dovuto presenziare consiglieri del principe territoriale, nonchè abati benedettini richiesti dalle monache. Al giorno stabilito si trovarono però soltanto un vicario episcopale con pochi signori. Poichè la badessa Verena rifiutava ancora l’obbedienza, il cardinale il 30 aprile 1455 la proclamò destituita e scomunicata. Nel contempo furono diffidati sotto pena di sanzioni tutte le persone debitrici di prestazioni e di decime di pagare le decime o comunque di avere rapporti con la badessa. Continuando le monache nel loro diniego, il 12 novembre il cardinale ordinò al parroco di San Lorenzo di proclamare alla presenza di tutti i fedeli l’anatema contro la badessa tutte le domeniche e nei giorni festivi, al suono delle campane, con le candele accese, con i sacri paramenti, con aspersione di acqua santa; il parroco doveva inoltre nel contempo invocare il Signore affinchè riconducesse le donne alla Santa Madre Chiesa e alla fede cristiana; dopodichè il parroco doveva recarsi col popolo alle porte della chiesa e scagliare le candele contro il convento, come segno di eterna dannazione. Il 9 gennaio 1456 fu chiamata a reggere il convento come amministratrice vicaria la decana Afra von Velseck, l’unica fedele al vescovo, la quale però dovette esser condotta al sicuro a Brunico. Ciò venne comunicato ai parroci di San Lorenzo, Tures e Marebbe, con l’incarico di minacciare la scomunica a tutti coloro che volessere corrispondere gli affitti e le decime alla badessa deposta e non alla amministratrice incaricata dal vescovo. Verena von Struben si rivolse allora a Sigismondo e lo nominò avvocato del monastero, in quanto riteneva che la richiesta del vescovo fosse solo un pretesto per ridurre i diritti del convento. Il conte tentò ripetutamente di ottenere un’ulteriore proroga del termine per le riforme o per ammorbidire il vescovo nei confronti delle monache. Infatti il vescovo era giunto ad invitare il parroco di san Lorenzo di allontanare l’Eucarestia dal convento, essendo essa, visto che le monache erano al bando, un’offesa a Dio. Il parroco venne però accolto dal convento con lanci di pietre e scacciato. Dopo tensioni crescenti tra il vescovo e il principe territoriale gli eventi precipitarono. Sigismondo aveva invitato il cardinale ad Innsbruck per un colloquio, ma anche questo fu infruttuoso, per cui si passò alle vie di fatto. Cusano si ritirò al castello di Andraz, si rivolse a papa Callisto III affermando di non sentirsi più sicuro a Bressanone a causa delle persecuzioni da parte del conte. Contemporaneamente cercò di ottenere dei mercenari dal doge di Venezia Francesco Foscari. Il conte aveva invece insediato Baldassare di Monguelfo a protezione del convento. Papa Callisto lanciò la scomunica sul conte e l’interdetto all’intera provincia, ma le misure non furono applicate dappertutto. Gli abitanti di Marebbe e di Badia erano d’accordo di non dover fornire nulla al convento, ma quando i generi alimentari cominciarono a scarseggiare a Castel Badia, le monache ingaggiarono dei soldati che al comando di Jos von Hornstein giunsero nella valle e minacciando le maniere forti intimarono ai contadini di fornire le decime. Di fronte alla minaccia i contadini dovettero accondiscendere, ma poichè temevano anche il vescovo, tentarono di portare di notte i generi alimentari al convento. Ma di ciò giunse a conoscenza l’ufficiale vescovile Gabriel Prack, giudice di Thurn e Buchenstein, che colse di sorpresa i contadini e i soldati di Hornstein, in località “Crep de Santa Grazia”. Ci furono 57 morti. Hornstein e i suoi furono imprigionati. Prack si recò ad attaccare Castel Badia, da dove le monache fuggirono per rifugiarsi a Castel Schöneck. Questa è la versione delle suore e di Sigismondo, mentre seconda un’altra versione furono i contadini a cogliere di sorpresa i soldati di Hornstein facendo rovinare su di loro una massa di pietre. Comunque, si fece venire da Brunico la decana Afra von Velseck nel convento pressochè vuoto, di cui fu nominata badessa. Si acuirono con ciò i contrasti tra il cardinale e il conte Sigismondo, anche se ci furono tentativi di comporre la vertenza. Il conte dichiarò di riconoscere solo l’autorità spirituale del papa e per il resto quella dell’imperatore; per far accettare le proprie condizioni al vescovo giunse ad assediarlo e ad imprigionarlo al castello di Brunico, dove il vescovo dovette accettare le più dure condizioni; ma subito dopo rinnegò l’accordo e si recò dal papa. Papa Pio II rinnovò scomunica e interdetto e questa situazione incresciosa durò fino al 1464: con l’intermediazione dell’imperatore si giunse a Vienna ad una pacificazione. Il cardinale nel frattempo era però deceduto a Todi. Papa Pio II (Enea Silvio de Piccolomini), che era in buoni rapporti con Niccolò da Cusa e col principe territoriale del Tirolo, Sigismondo, si era impegnato personalmente per la composizione della vertenza e il 24 aprile 1459 si era giunti, con l’intermediazione del vescovo di Trento, Giorgio di Hack, alla conclusione delle trattative. Verena e le monache furono sciolte dalla scomunica e dall’interdetto, Verena stessa lasciò il convento. La nuova badessa Barbara von Schardorf dovette giurare obbedienza al cardinale come vescovo diocesano, ma soltanto sotto Barbara von Künigl (1462-1498) l’ordine e la pace ritornarono a Castel Badia. Si dovette comunque attendere il 1489 perchè con l’assistenza di due arbitri vescovili e due imperiali si raggiungesse una regolamentazione definitiva, che fu sottoscritta a Bressanone dall’imperatore Massimiliano, dal vescovo di Bressanone Melchiore card. Meckau (1489-1509), dai canonici, dalla badessa Barbara Künigl e dagli arbitri. Il convento fu colpito da altre calamità quali l’attacco e la distruzione durante le guerre contadine degli anni 1524-1525, cui partecipò anche gente del luogo, capeggiata da Andrä, sarto di Luson. Anche nei confronti del principe vescovo di Bressanone cardinale Andrea d’Austria (1591-1600) le monache furono un po’ sostenute ma questi si dimostrò molto clemente; offrì persino il non lontano castello di San Michele come residenza temporanea fino alla ricostruzione del convento quando questo fu pressochè incenerito nel 1598 da un fulmine. Gradualmente i rapporti col vescovo migliorarono, poichè sia il vescovo che il convento ebbero a percepire la crescente potenza del principe territoriale. Le monache poterono comunque opporsi anche ai commissari del principe rifiutando loro il giuramento. Questi ed altri contrasti, che si protrassero per secoli ebbero ingloriosa fine al tempo dell’imperatore Giuseppe II, che il 10 febbraio 1785 decise la soppressione del monastero di Castel Badia “poichè esso è di scarsa utilità pubblica”, anche se il convento era divenuto a partire dal 16° secolo un centro di istruzione per le giovani donne della nobiltà. Fu il comandante distrettuale Josef Anton von Grebmer a consegnare il 28 aprile alla badessa l’editto di secolarizzazione. Il patrimonio del convento, ammontante a 333.833 fiorini, fu diviso in tre parti; la prima andò al fondo per il culto, la seconda al fondo per la scuola e il terzo all’istituto assistenziale per nobildonne di Hall. Il privilegio di partecipare alla dieta provinciale del Tirolo passò alla decana dell’Istituto per nobildonne di Innsbruck. Nel 1789 furono venduti oggetti preziosi e paramenti, il ricavato fu di 11.413 fiorini. Una parte delle monache (al tempo della soppressione erano 17 suore, 7 sorelle laiche e una novizia) si ritirò a Vipiteno nella residenza Jöchlsthurn. Il governo bavarese il 21 maggio 1812 soppresse anche la cura d’anime e vendette gli edifici della chiesa e del monastero. Mentre la chiesa abbaziale, sconsacrata e spogliata dopo la soppressione del monastero andò completamente in rovina, l’edificio conventuale principale, ceduto a privati e adibito poi a casa comunale di riposo, si conservò in discreto stato fino al secondo dopoguerra. Rivenduto nel 1972 ad un imprenditore privato, dopo l’ effettuazione di scavi in collaborazione con la sovrintendenza ai monumenti esso venne restaurato nel rispetto delle forme storiche e destinato ad esercizio alberghiero caratteristico. I Benedettini di Monte Maria E’ merito di una famiglia nobiliare della Bassa Engadina, i Tarasp, se è potuto sorgere il secondo monastero benedettino maschile della nostra diocesi. Tarasp aveva fondato tra il 1090 e il 1095, con l’appoggio del fratello vescovo di Coira Uldarico II, nelle vicinanze del proprio castello omonimo sito presso Schuls, sempre in Bassa Engadina, un’abbazia benedettina. Ma per il clima rigido e per l’ostilità della popolazione locale il monastero non ebbe lo sviluppo sperato, oltre al fatto che gli edifici conventuali, di legno, furono distrutti più volte da incendi. Uldarico III di Tarasp, nipote di Eberardo di Stammberg, decise allora, d’intesa con l’abate Albert, di ricostruire il monastero in un appezzamento di sua proprietà sito nell’Alta Val Venosta. Dovette però recarsi due volte a Roma con l’abate, finché nel 1146 ottenne da papa Eugenio III (1145-1153) l’autorizzazione per la ricostruzione del monastero. Dopo un tentativo presso la chiesetta carolingia di S. Stefano sopra Burgusio, tre anni dopo, nel 1149, la comunità monastica, per il forte vento e per la scarsità d’acqua, dovette trasferirsi di nuovo, alcune centinaia di metri verso est ai margini del torrente Almeina, dove si trovava un’antica cappella dedicata a Maria, da cui prese il nome del nuovo monastero, Monte Maria (Marienberg). Al nuovo convento fu concessa la protezione papale, in cambio del versamento annuale a Roma di un Bisanzio (una moneta d’oro). Le notizie sull’origine e sui primi passi del monastero sono contenute nella “cronaca di Monte Maria” del monaco Goswin, opera preziosa non solo per la storia del convento ma anche come documento sulla storia medioevale del Tirolo. Secondo Goswin, che del convento fu anche priore, a costituire la nuova comunità monastica furono chiamati alcuni monaci benedettini dall’abbazia sveva di Ottobeuren. E’ del 1150 l’atto del primo abate Albert documentante la prima struttura conventuale, una semplice casa e la cappella di S. Maria. Furono la munificenza di Uldarico Tarasp e della consorte Uta di Ronsperg, nonché la benevolenza di altre famiglie nobili del Tirolo del Sud a dotare il monastero di numerosi possedimenti, aiuti finanziari, privilegi, tanto che Monte Maria poté avere un’indipendenza economica e dare buone prospettive per il futuro alla comunità monastica, nella quale entrò anche il figlio di Uldarico Tarasp. La stessa Uta col consenso del consorte prese l’abito del monastero e scelse la povertà monacale. Recatasi in pellegrinaggio in Terrasanta, morta nel 1163 a Gerusalemme, il marito ne fece portare le spoglie a Monte Maria dalla compagna di viaggio Berntrudis. Rimasto vedovo Uldarico scelse anche lui, il coraggioso cavaliere ed eroe crociato, il silenzio di una cella, ma prima volle assicurare al monastero un protettore nella persona del suo caro nipote Egno von Matsch. Fece anche abbattere il proprio castello sito su uno sperone roccioso sopra Monte Maria, per evitare che in futuro un cavaliere potesse minacciare il convento. Nel 1169 si recò anche dall’imperatore Federico Barbarossa per la conferma del monastero e di tutte le sue donazioni. L’archivio di Monte Maria conserva ancora un atto, in pergamena, indicante i primi membri della comunità monastica al tempo del fondatore. In testa c’era l’abate Gerardo, successivi firmatari i frati del convento, in primo luogo Udalricus de Taraspis, seguono poi i sacerdoti, i diaconi, i fratelli laici. La comunità religiosa era appunto in numero sufficiente per lodare Dio giorno e notte col canto dei salmi. Uldarico, il pio fondatore, morì il 22 gennaio 1177, seguendo suo figlio che l’aveva preceduto nella morte. Ogni anno il monastero ricorda la famiglia fondatrice, le cui ossa riposano nella chiesa del convento dietro ad una lapide marmorea decorata con una croce d’ottone. Nel 1156 si iniziò la costruzione del complesso romanico del monastero, quattro anni dopo, il 13 luglio 1160, il vescovo Adelgott di Coira consacrò la cripta. Quando Volker, l’ultimo dei cinque abati provenienti da Ottobeuren (Albert, Mazelinus, Swiker, Gebhart e Volker), si dimise, i monaci elessero come abate il conte Federico di Appiano; a lui e ai suoi parenti si deve un’ulteriore crescita dei possedimenti del monastero. Gli abati e il convento si fecero man mano sempre confermare dai papi e dagli imperatori i propri diritti e le proprietà del monastero, per es. dai papi Alessandro III (1159-1181), Lucio III (1181-1185) e dall’imperatore Enrico VI (1190-1197). Nel 1181 papa Lucio III confermò all’abate di Monte Maria il possesso della chiesa di S. Stefano con tutti i benefici parrocchiali. Tale chiesa nella quale per sette secoli i monaci di Monte Maria esercitarono con diligenza la cura d’anime, divenne nel tardo Medio Evo oggetto di pellegrinaggi per la presenza di un’immagine votiva della Madonna Addolorata, immagine che nel 1938 è stata trasferita nella chiesa del monastero. Nel 1186 fu la parrocchia di Burgusio ad essere la più importante sede di cura d’anime del convento, anche se all’inizio ci furono ostacoli da parte della popolazione; ci furono difficoltà anche per il fatto che i monaci, provenienti da Ottobeuren, parlavano tedesco, alquanto diverso dal retoromanico degli abitanti retoromanico. Ci volle un piccolo Sinodo diocesano, nel 1201, per superare incomprensioni e resistenze. I risultati del Sinodo furono confermati dal cancelliere diocesano e, nel 1217, da papa Onorio III (1216-1227). Il 21 marzo 1259 il vescovo Enrico di Coira affidò ai monaci di Monte Maria una estesa sede di cura d’anime, quella di S. Martino in Passiria. La frazione di Plata, per la sua posizione e distanza fu staccata dalla parrocchia madre di S. Martino e divenne parrocchia a se stante. Il monastero non riuscì comunque a superare le difficoltà economiche, dovute anche alla sua posizione, a 1336 metri di altitudine, che non permetteva introiti da grande azienda. Ma in compenso il monastero si rafforzò e consolidò al suo interno, e grande zelo animò i confratelli di Monte Maria, preparandoli alle future prove, che giunsero quando stava emergendo non più lo spirito che aveva mosso migliaia di persone a lottare per la fede, a fondare monasteri per favorire una vita di povertà e preghiera, ma iniziava ad insinuarsi, specie dall’alto, la cupidigia e la contesa per il potere. E ciò in modo particolare quando l’imperatore Federico II (1212-1250) intraprese la lotta contro il Papato, non disdegnando alcun mezzo per procurarsi piccoli e grandi alleati. Anche la storia di Monte Maria fu coinvolta nelle vicende di questo periodo, caratterizzato dalla “cavalleria predona”. Dopo decenni di relativa calma sotto gli abati che erano succeduti a Federico di Appiano, la bufera entrò anche a Monte Maria, e in modo spaventoso, mentre era abate Chunrad III, della famiglia nobiliare dei Ramüs. Per indebolire il litigioso Egno III von Matsch, il vescovo Enrico di Coira (1251-1272) aveva favorito il suo antico rivale Schweighard di Reichenberg (un castello in Val Monastero), il quale, non meno violento, approfittò della propria posizione per attaccare Egno; per essere più forte cercò alleanze, trovando quella di Federico di Ramüs, fratello germano dell’abate Chunrad III di Monte Maria, cui fu fatale lo scontro tra i doveri della propria carica e il legame familiare. La scarsa risolutezza dell’abate mosse Schweighard di Reichenberg a dubitare della sua affidabilità, per cui decise di renderlo innocuo. Nella notte tra il 24 e il 25 ottobre 1274 il convento fu depredato; fu asportato tutto fuorché gli infissi, tanto che per trasportare il bottino a Reichenberg ci vollero ben dodici carri. Dalle stalle furono presi cavalli, asini, pecore e maiali. Le ruberie furono estese, specie a Nauders, a chi a vario titolo era a servizio del monastero, che rimase senza fonti di sostentamento, per cui i monaci si videro costretti a cercare altrove di che vivere. Nel convento rimase un unico monaco, per la S. Messa e per la cura d’anime di Burgusio. Ma sull’autore del misfatto giunse presto la giustizia divina: dopo qualche tempo cadde a terra colpito a morte alla testa dallo zoccolo del proprio cavallo che stava ferrando. Quando finalmente l’abate con i suoi confratelli poté tornare in convento, sua prima cura di risollevare il monastero dal punto di vista materiale, e allo scopo si affidò ad un certo Arnold di Sins, che si intendeva di economia e che difatti, giunto povero a Monte Maria, dopo 20 anni di amministrazione poté ritirarsi a Malles come ricchissimo possidente. Ma altre calamità si preparavano per il convento; coloro che dovevano esserne i protettori, in qualità di “avvocati”, i conti Matsch, dopo qualche tempo in cui avevano diligentemente assolto il loro compito, come ad esempio Hartwig II, particolarmente pio, la situazione cambiò dopo la sua morte, avvenuta nel 1250, e l’avvento dei suoi figli, Egno III, detto “l’attaccabrighe”, e Albero, detto “il mangione”, il cui figlio Ulrico II rimase negli annali del convento come assassino di abati. Era sorta infatti una controversia circa alcuni diritti del convento che il conte voleva far propri, diritti che l’abate Hermann von Schönstein difendeva con energia, suscitando l’ira del conte, che non ebbe limiti quando seppe che l’abate aveva chiesto aiuto al principe territoriale Ottone di Tirolo. Il 28 agosto 1304 Ulrico apparve a Monte Maria con una masnada di furfanti; introdottosi con la forza in sagrestia catturò il giovane abate e lo fece condurre nella valle di Slingia e lì lo fece decapitare. Tornato al monastero l’avvocato iniziò a depredare il convento di tutto ciò che era a portata di mano, prendendo di mira le fonti storiche scritte, specie quelle che deponevano a suo sfavore. L’episodio è ricordato col nome di “Matscher Sacco” (il sacco di Mazia). Passati i primi momenti di sgomento, a notte fonda, alla luce di una lanterna, il monaco e futuro abate Whiso si inoltrò nell’oscura valle di Slingia dove trovò il corpo di Hermann. Il martire fu sepolto nel convento tra il dolore e i lamenti dei monaci. Il tragico fatto portò nel 1311 alla revoca dell’avvocazia ai conti von Matsch da parte dell’abate Johannes II, avvocazia che fu trasferita a Enrico re di Boemia; questi però la riconcesse in feudo ai signori von Matsch, e così riprese in modo ancor più spudorata l’oppressione. Papa Clemente V (1305-1314) il 19 marzo 1308 aveva inflitto da Avignone delle opere di penitenza per l’assassinio dell’abate, ma non risulta che “l’avvocato” le abbia adempiute, se non in minima parte. Fu solo con l’abate Albert II (1388-1415) che il monastero riuscì ad ottenere dal duca d’Asburgo Alberto III, detto “la Freccia”, (1349-1395) che fosse tolta l’avvocazia ai conti von Matsch; il monastero passò dal 1421 sotto la protezione del conte del Tirolo Federico IV Tascavuota (1406-1439) e poi della casa d’Austria. I rapporti del convento con i vescovi di Coira non furono molto amichevoli, specie dopo la costruzione di Castel del Principe (Fürstenburg) in riva all’Adige nei pressi di Burgusio. Il castello era sorto per volere dei vescovi di Coira che vedevano il proprio potere temporale minacciato dall’emergente casata dei Tirolo. Il vescovo di Coira sin dal 1302 aveva cercato di immischiarsi nella elezione dell’abate e gli abati successivi ebbero da lamentarsi per le continue imposizioni di tributi ed estorsioni di denaro da parte dei vescovi. L’attività esterna dei monaci di Monte Maria nel Medioevo fu ridotta, dato anche il numero dei conventuali, che non superò mai la dozzina. Uno dei monaci era curatore d’anime a S. Martino in Passiria, che dal 1259 era incorporata al monastero, mentre la parrocchia di Burgusio e la vecchia parrocchia di S. Stefano erano curate direttamente dal convento. Un anno sfortunato per i monaci fu il 1418. Il 2 agosto scoppiò all’alba un furioso incendio, che divampò fino alle cantine. Perché il monastero potesse riavere il suo precedente aspetto per diverse difficoltà economiche si dovette attendere l’abate Peter I Bücheler (1433-1458). Altro giorno drammatico per il convento fu il 18 maggio 1464 quando l’abate Petrus II, per aver focosamente difeso i diritti del monastero fu aggredito da due abitanti di Burgusio, detti Appenzeller, che lo colpirono con pali da steccato e poi lo lapidarono. Ma il monastero in quel tempo non fu solo alle prese con problemi economici, vi furono difficoltà anche sotto l’aspetto spirituale. Era considerevolmente calata la disciplina conventuale e non ci si atteneva alle direttive date nel 1489 da Massimiliano d’Asburgo in qualità di protettore. Monte Maria se la cavò alquanto a buon prezzo in occasione della guerra dell’Engadina, quella che nel 1499 oppose i Tirolesi agli Svizzeri, una delegazione dei quali fece visita all’abbazia. Anche l’imperatore Massimiliano I (1490-1519) visitò il monastero e vi festeggiò il Corpus Domini. Conseguenze peggiori per il monastero ebbe la rivolta dei contadini del 1525. Turbe di contadini agitati saccheggiarono il convento distruggendo ciò che capitava loro tra le mani. In quell’occasione subirono forti perdite la biblioteca e l’archivio. Ma anche la vita monastica fu danneggiata particolarmente a causa delle novità religiose che contaminavano l’intera regione, l’Anabattismo da est e lo Zwinglianesimo da ovest, facendo pressoché svuotare il convento, che rimase con un solo monaco, che era anche parroco di Burgusio, ad assistere l’abate Bernhard von Wehingen (1518-1556) al momento della sua morte. Per porre rimedio al declino spirituale e materiale intervenne più volte il governo austriaco. Su sua richiesta il monastero fece venire abati da S. Biagio nella Selva Nera, come Philipp God (1561-1571) e Kosmas Zink (1578-1586), i quali riuscirono in effetti a far superare la crisi e a restaurare la disciplina monastica oltre a risollevare le condizioni economiche. Con l’abate Kosmas Zink erano aumentati anche i novizi e le cose sembravano andare per il meglio quando la sua prematura morte mise ogni cosa in forse. Infatti con l’abate Leonardus Andrì (1586-1606) la crisi giunse al punto culminante, tanto che il nunzio Giovanni della Torre stava pensando di proporre la soppressione del convento e la sua trasformazione in seminario della diocesi di Coira. Ma il governo di Innsbruck ribadì l’interesse per le sorti del monastero di Monte Maria, data la sua importanza come baluardo cattolico in prossimità del cantone protestante dei Grigioni. Si impegnò in particolare il conte del Tirolo arciduca d’Asburgo Ferdinando II (1565-1595), come pioniere della Controriforma in Tirolo. Anche papa Clemente VIII (1592-1605) mostrò ripetutamente interesse per il mantenimento di Monte Maria, vista la sua posizione “in confinibus haereticorum”. Fu ancora un monastero svevo, quello di Weingarten, a venire in aiuto a Monte Maria. Con l’amministratore (1606-1613) e in seguito abate Matthias Lang (1615-1640) nelle vecchie mura riprese a fiorire nuova vita. Per esser riuscito a consegnare al suo successore un convento più sicuro dal punto di vista spirituale e materiale, si è meritato il titolo di “secondo fondatore”. Per ostacolare l’influenza in Alta Val Venosta delle dottrine luterane fu lui, col permesso del principe territoriale arciduca Massimiliano III (1602-1618), a proibire nel 1609 a Slingia le nozze con Engadinesi; ordinò inoltre ai suoi sottoposti di assumere soltanto servitori tedeschi; promosse l’insegnamento e scuole di lingua tedesca, tra l’altro facendo venire appositamente a Burgusio un insegnante dalla Svevia, per cui diminuì sempre più in quel tempo la lingua neolatina. Sotto l’abate Lang ebbe nuovo slancio la scuola conventuale, con l’aumento delle materie di insegnamento. C’è una testimonianza in merito, quella nelle memorie di uno scolaro di quei tempi, il roveretano Giacomo Goffredo Ferrari: “Vi era sempre venti e più Padri o Fratelli musicanti, che prendevano in pensione (degli) scolari, proveduti di tutto - eccetto il vino - e senza buone mani o regali, per la sola somma di fiorini novanta all’anno per testa; obligandosi oltre il mantenimento d’istruirli nella lingua tedesca e latina, nell’aritmetica e in qualunque ramo di musica esercitato da essi monaci”. All’abate Lang si deve anche l’ampliamento del monastero con un secondo piano, lavori che il suo successore Jakob Grafinger (1640-1653) continuò con la ristrutturazione della chiesa conventuale. L’antica basilica romanica a tre navate fu adattata allo stile barocco del tempo e fu ristrutturata anche la cripta con tre altari adibita a luogo di sepoltura dei monaci. Il 25 novembre 1647 Maximilian Mor, consigliere segreto ad Innsbruck fece visita al convento e alla chiesa; di ciò prese nota l’abate nel suo diario: “La chiesa gli piacque in modo straordinario”. Altro titolo di merito dell’abate fu il suo impegno per l’arricchimento della biblioteca, con il coinvolgimento di persone colte e amanti della scienza, nonché per avere promosso l’ulteriore formazione di monaci inviandoli a rinomate scuole. Perché potessero frequentare le lezioni di teologia presso i Padri Domenicani, fece costruire a Bolzano una casa per i frati di Monte Maria. Monte Maria verso la fine della Guerra dei Trent’anni (1618-1648) fu luogo di rifugio per molti monaci provenienti dalla Baviera e dalla Svevia, che trovarono asilo temporaneo nel monastero situato nell’Alta Val Venosta; ciò in quanto il re di Svezia Gustavo II Adolfo Vasa (1611-1632) era penetrato vittorioso nella Germania centrale e aveva saccheggiato numerosi conventi. La Guerra dei Trent’anni col passaggio di truppe portò nuovamente la peste anche in Alta Val Venosta; nel giro di due mesi a Monte Maria morirono tre monaci. Il successore di Grafinger, abate Ferdinando, nominato nel 1655 cappellano di corte, riuscì nonostante l’incendio che nel 1656 distrusse il tetto e la torre campanaria, a fare qualche acquisto in oggetti di valore e in proprietà. Grande interesse e alta considerazione per la formazione scientifica ebbero gli abati Franz von Pach (1663-1705) e Johann Bapt. Murr (1705-1732), specialmente il secondo, il quale subito dopo la sua elezione introdusse nel convento per i suoi chierici un completo corso di studi teologici, accessibile anche ad esterni. Ne sono testimonianza le esercitazioni dialettiche e le dispute teologiche che furono organizzate durante il governo dell’abate Murr e dei suoi successori. In quel tempo a Monte Maria esisteva anche una piccola scuola conventuale, che, dopo lungo tempo di inattività, era stata ripristinata nel 1556 dall’abate Abart. Da menzionare anche l’introduzione in quel periodo dell’istruzione musicale. Gli allievi provenivano per lo più dalle migliori famiglie della zona. Il governo dell’abate Murr è caratterizzato da un avvenimento di grande importanza per il convento e per il vasto territorio circostante: l’istituzione nel 1724 del ginnasio di Merano. L’ambito dell’azione dei monaci di Monte Maria si allargò considerevolmente, a giovamento dello stesso convento, poiché sotto l’abate Murr il numero dei monaci raddoppiò rispetto al tempo del suo predecessore. Il successore di Murr, l’abate Beda Hillebrand (1732-1771), oltre ad aprire un convitto presso il ginnasio riuscì con un’oculata amministrazione dei beni del monastero a coprirne il forte deficit, dovuto anche agli onerosi contributi bellici (la tassa dei turchi), e ad estinguere tutti i debiti, in modo che il suo successore poté investire grosse somme per un dignitoso arredamento della chiesa conventuale, per la biblioteca e per istituire la stanza degli ospiti. Con l’abate Plazidus Zobel (1782-1815) Monte Maria fu messo nuovamente a dura prova. Già un decreto imperiale del 24 marzo 1781 aveva proibito ogni collegamento dei conventi austriaci con quelli esterni, per cui Monte Maria non poté più collegarsi con la congregazione sveva, alla quale apparteneva sin dai tempi dell’abate Lang. Nel 1786/1787 fu soppresso il convitto presso il ginnasio di Merano; quando nel 1799 i Francesi dalla Val Monastero irruppero in Val Venosta si temette che Monte Maria fosse di nuovo incendiato e depredato. Si dovette all’intercessione del comandante del castello di Fürstenberg, Peter Anton von Mont, se al convento e al sottostante paese di Burgusio fu risparmiato il peggio. Comunque a Glorenza e a Malles andarono a fuoco due case appartenenti al monastero. Il colpo più duro il convento lo subì nel 1807, anno in cui il monastero fu soppresso dal governo bavarese. Alla soppressione del convento seguì l’esilio dei monaci, che furono deportati a Fiecht (presso Schwaz, nella valle inferiore dell’Inn) e posti in stretta segregazione. Per i beni del monastero fu incaricato un regio amministratore, con il compito di vender tutto all’asta. Così andarono perse molte aziende agricole da tempo appartenenti al monastero, mentre oggetti e arredi sacri, paramenti, furono alienati a prezzi ridicoli. Anche la biblioteca e l’archivio subirono gravi danni.; c’erano due monaci, Romuald Helf e Marian Stecher, che simpatizzavano per i bavaresi, ma si dovettero ricredere al constatare come era stato trattato e ridotto il convento. Con la liberazione del Tirolo nell’aprile 1809 furono liberati anche i monaci, ma nel tardo autunno dello stesso anno ritornarono i bavaresi, che soppressero il ginnasio, trasformandolo in scuola media regio-bavarese. Il Tirolo ridivenne austriaco nel 1814. Fu riaperto il ginnasio dove poterono tornare a insegnare i benedettini di Monte Maria. Il 12 gennaio 1816 l’imperatore d’Austria Francesco I (1804-1835) ordinò da Milano di ripristinare l’abbazia. L’abate Placido non poté gioire per tale evento poiché era deceduto il 29 gennaio 1815 a Merano, vittima di una malattia mentale, causata forse anche dai tragici fatti che aveva dovuto subire. Furono in 18 i conventuali a ritornare a Monte Maria e toccò al nuovo abate Karl Mayr (1816-1855), di Tirolo, il gravoso compito di rimettere in sesto il monastero, che si era ridotto a vuote stanze e fredde mura. Come aveva dovuto promettere al momento della sua elezione, nei 39 anni di governo cercò di recuperare il più possibile degli oggetti e dei beni. L’abate, grande amico dell’arcivescovo di Trento Giovanni Nepomuceno Tschiderer, si preoccupò anche del bene spirituale dei propri sottoposti e si sforzò di promuovere la disciplina e la tensione alla santità nei suoi monaci. Per tutto ciò l’abate Karl Mayr fu considerato il terzo fondatore del convento. Fu durante il suo governo che entrarono a Monte Maria tre aspiranti che avrebbero contribuito a far tenere in grande considerazione il monastero e il ginnasio: padre Pius Zingerle, che sarebbe divenuto grande orientalista e docente alla Sapienza di Roma; Padre Albert Jäger, storico e docente ad Innsbruck e a Vienna; Padre Beda Weber, che nel 1848 divenne deputato al parlamento di Francoforte e che morì come parroco del duomo imperiale di Francoforte. Sotto l’abate Augustin Moriggl di Burgusio (1855-1861) la chiesa di S. Stefano fu staccata dal monastero di Monte Maria e gli abitanti di Slingia appartenenti a questa parrocchia furono assoggettati alla giurisdizione del vescovo di Bressanone. L’abate Peter III Wisler di Tubre (1861-1885) oltre all’aver fatto installare nel 1866 l’attuale organo e nel 1879 un nuovo orologio della torre campanaria, nel 1883 acquistò dal municipio di Burgusio Castel del Principe, che nel 1952 è divenuto sede di una scuola agraria. Anche i successori dell’abate Karl Mayr seguirono molto le vicende del ginnasio, che nella Pentecoste del 1925 celebrò solennemente i 200 anni dalla fondazione. Purtroppo a causa degli avvenimenti politici l’istituto fu chiuso tre anni dopo tale celebrazione. La fine del ginnasio giunse sia per il corso politico - i docenti erano stati costretti ad insegnare diverse materie in lingua italiana, cosa che non era possibile per essi - che per la riduzione del proprio corpo docente. Il ginnasio dei benedettini aveva preparato alla vita nei 200 anni di esistenza circa 5 mila allievi. A Monte Maria l’abate Leo Maria Treuinfels di Trieste (1885-1928) fece restaurare nel 1910 la chiesa conventuale, creando un ambiente veramente degno per l’ufficio divino dei benedettini; si preoccupò inoltre particolarmente perché si ravvivasse nel convento lo spirito benedettino. L’abate, che era membro del consiglio provinciale e di quello imperiale, nel 1889 associò il monastero alla Congregazione austriaca di S. Giuseppe, introdusse nel monastero la riforma auspicata dalla Santa Sede per tutto l’Ordine e fu il primo visitatore della Congregazione. Il suo successore, abate Ulrich Patscheider di Laces (1928-1957) cercò di rafforzare le condizioni economiche indebolitesi durante il conflitto mondiale; restaurò il Rediffianum (il convitto, intitolato al suo promotore, il funzionario imperiale Johann Bapt. Rediff di Burgusio, convitto che i monaci avevano continuato a gestire anche dopo l’abbandono del ginnasio), creando grandi locali più accoglienti e funzionali. Nel 1928 il ginnasio di Merano, gestito dai benedettini di Monte Maria, fu appunto soppresso sotto la pressione del regime del tempo; al monastero fu vietato anche il collegamento con la Congregazione austriaca, per cui esso si associò a quella svizzera. La perdita del ginnasio contribuì al calo dei membri del monastero, che nel 1910 contava 35 monaci, 9 fratelli laici e 2 chierici. Dopo le celebrazioni nel 1946 degli 800 anni del convento, l’abate fece rivivere l’antica scuola conventuale di Monte Maria, soppressa nel 1807, come piccolo ginnasio privato, per dare la possibilità di studi a coloro che desideravano servire il Signore come monaci o sacerdoti. Infatti da questa nuova esperienza di scuola conventuale, la quale nei 40 anni di esistenza (nel 1986 la scuola fu chiusa, dopo esser stata trasformata nel 1966 da ginnasio a scuola media inferiore) istruì nel sapere del tempo ma anche educò cristianamente circa 500 allievi, maturarono dieci vocazioni sacerdotali, delle quali quattro si aggregarono alla comunità monastica. La scuola è stata comunque un’esperienza di alto valore sociale, avendo dato a molti figli di contadini poveri provenienti dalle valli Venosta, Passiria, Ultimo, l’unica possibilità di partenza per la loro futura professione. Accanto alla scuola i monaci di Monte Maria si sono attivati sin quasi dalla fondazione del convento della cura d’anime, altri svolsero il loro dovere nella vita ritirata del convento, tutti comunque in qualsiasi posto si trovassero hanno servito e servono il Signore. L’abate Stephan Pamer di Plata in Passiria (1057-1984) fece rinnovare molto sia a Merano che nel monastero, dove per merito di questo abate furono introdotte le novità liturgiche e monastiche in attuazione del Concilio Vaticano II. Nel 1980, in occasione delle celebrazioni del 500° della nascita di S. Benedetto da Norcia, la cripta che nel 1642 era stata ricostruita sotto l’abate Grafinger, fu riportata alla sua forma originaria, con scopertura del complessivo ciclo di affreschi. Dal 1984, quarantanovesimo abate del monastero, è Bruno Trauner a reggere il pastorale; da quando è entrato in carica, con la chiusura della scuola media nel 1986, i monaci si dedicano maggiormente alla cura d’anime. L’abate, il cui motto è “Il Signore è la forza della mia vita” è convinto che nell’antico convento si andrà avanti, pur con meno monaci. La storia stessa di Monte Maria è la prova che il Signore non abbandona il monastero dei Tarasp. Oggi esso, che ha problemi sia economici che di nuove leve, è visitato da molti turisti. Voglia il Signore farlo continuare, conforme al motto dei benedettini “Ora et labora”, nella sua missione a beneficio della Val Venosta e di tutta la diocesi. Scheda Il monaco Goswin e la sua “Cronaca” All’interno del monastero benedettino di Monte Maria è custodita una cronaca, scritta nel 1365 dal priore Goswin, grazie alla quale è possibile ricostruire gran parte della vita politico-sociale della Val Venosta medioevale. Goswin, che dedicò tutta la sua esistenza alla difesa dei diritti dell’abbazia di Burgusio, visse forse il momento più difficile della storia di Monte Maria: le depredazioni e le violenze dei potenti, lo scarso appoggio e spesso l’ostilità dei vescovi di Coira, il drammatico susseguirsi di pestilenze e catastrofi. Come se ciò non bastasse la vita interna del monastero aveva subito un certo imbarbarimento, i monaci non svolgevano con la dovuta cura le orazioni. Chi avrebbe più donato al monastero rendite e terreni se poi nessuno avrebbe pregato per la salvezza delle anime? Poiché i monaci vivevano delle oblazioni dei fedeli, senza pregare per loro, Goswin richiamava i confratelli al dovere. Ritenendo che fosse giunto il momento di riporre ordine nei beni di Monte Maria e di restaurare l’antica potenza, decise di scrivere la Cronaca dell’abbazia. Riordinate tutte le lettere di privilegio avute dal monastero a partire dalla sua fondazione, le raccolse in una “cornice” costituita da brevi cenni storici, che avrebbero dovuto illustrarle e attestarle. Nacque così la Cronaca del monastero di Monte Maria, che si apre con la preoccupata esortazione ai monaci. Segue un calendario, dove sono riportate le date di morte dei fondatori del monastero, i signori di Tarasp, e dei vari benefattori, abati, avvocati, per l’anima dei quali era necessario celebrare determinate funzioni religiose. Nel successivo registrum Goswin precisa invece ciò che tratterà nella Cronaca, specificandone i fini. La Cronaca vera e propria si divide in tre parti. Vengono in primo luogo riportati gli avvenimenti a partire dalla fondazione dell’abbazia a Schuls, in Engadina, fino all’epoca del suo trasferimento a Burgusio; il tutto è intrecciato all’elenco delle varie donazioni dei Tarasp con le conferme dell’imperatore Federico I, del conte del Tirolo Alberto e di papa Alessandro III. Segue una Historia abbatum, che riporta i principali avvenimenti, soprattutto politici, avvenuti sotto ogni abate. Il fulcro è costituito dalla narrazione dell’assassinio dell’abate Hermann da parte dell’advocatus (ovvero il suo protettore) Ulrico von Matsch, avvenuto nel 1304. La terza parte è composta da documenti riportati integralmente, che si sovrappongono alla precedente narrazione. Con la sua Cronaca, costituita da diversi strati non integrati tra loro, Goswin non ha alcun altro interesse se non la restaurazione dell’antica potenza del monastero. Perché il prestigio di Monte Maria possa essere restaurato, Goswin si aggrappa ai documenti, agli antichi privilegi, agli antichi computi delle entrate economiche, come fossero la vera realtà; il suo mondo è ancora quello del XII e XIII secolo, quando la parcellizzazione del potere lasciava sussistere vaste aree di autonomia. Nel XIV secolo però la realtà sta cambiando: mentre un intero castello di regola sociali va in frantumi, le nuove potenze emergenti per ottenere i loro fini adottando i metodi più cruenti. Tra gli effetti causati da tali metodi, vanno annoverate le ondate di peste che devastarono in quei tempi i territori della Val d’Adige: la falce della “morte nera” colpì quasi tutti i monaci del monastero di Monte Maria: la mattina di domenica 30 luglio 1374 cadde infermo anche il monaco Goswin, il cui corpo iniziò a coprirsi di devastanti bubboni. I pochi confratelli rimasti si raccolsero a pregare fervidamente per la sua salvezza, che giunse di lì a poco. Il convento di Muri Gries Forse non tutti sanno che i predecessori dei monaci abitanti il convento di Muri-Gries (Bolzano) non furono da sempre benedettini e che non da sempre hanno abitato nel complesso di piazza Gries, ma che vi sono venuti da convento sito in altra zona di Bolzano. La storia alquanto movimentata dell’abbazia di Muri-Gries si può dividere in tre fasi: dal 1160 al 1406, la successiva dal 1406 al 1807, infine quella dal 1841 ad oggi. Fu Arnoldo II, conte di Morith e di Greifenstein, a fondare con la consorte Mathilde, duchessa di Valay (Baviera), un monastero di canonici regolari di S. Agostino; sorse così il convento di S. Maria in Augia, in una zona di Bolzano posta alla confluenza di Adige, Isarco e Talvera (dal ritrovamento nel 1986 di alcuni resti si è ipotizzato che il monastero si trovasse nella zona di via Alessandria); il conte Arnoldo II era avvocato, cioè protettore, del vescovado di Bressanone; era anche fratellastro di Ulrico di Tarasp, fondatore del monastero di Monte Maria sopra Burgusio. Fu lo stesso famoso e potente imperatore Federico I Barbarossa (1152-1190) a ufficializzare, il 31 ottobre 1166, l’istituzione del monastero con annessa chiesa; nell’atto gli avvocati, protettori del convento, vengono indicati nelle persone dei conti Federico ed Enrico di Appiano, e loro eredi. I lavori di costruzione del monastero furono ultimati nel 1163 e il tutto consegnato ai canonici venuti da Novacella, alla presenza dell’arcivescovo di Trento Adalpreto II (1156-1177). Nel 1167 si insediò il primo priore, Henrich I, il quale, venuto da Klosterneuburg (presso Vienna), nel 1174 ottenne da papa Alessandro III (1159-1181) anche il riconoscimento ecclesiastico della nuova comunità monastica, fatta di monaci venuti da Novacella. La Bolla del 30 gennaio 1174, che fu sottoscritta anche da 14 cardinali, assicurava al convento, ai suoi membri e ai suoi possedimenti, la protezione papale. Nel 1179 ci fu la consacrazione della chiesa da parte del patriarca di Aquileia e legato apostolico Odalrich, in rappresentanza del vescovo di Trento, Salomone (1177-1183), che si trovava a Roma per il Concilio ecumenico. Successivamente venne completata la costruzione del complesso monastico, che attraverso generose donazioni acquistò un’importante ruolo economico e culturale. Nel 1186 fu lo stesso papa Urbano III (1185-1187) a donare al convento diversi possedimenti e a concedere privilegi; la relativa Bolla elenca le proprietà site non solo nei dintorni di Bolzano ma anche in altre zone, come le valli Pusteria, Anterselva, Vizze. Anche un ulteriore documento dell’imperatore Federico elenca nuovamente e conferma, nel 1189, le proprietà del monastero. Sulla vita e sull’attività dei canonici nel XII e XIII secolo vi sono solo scarne notizie. Più che altro sono noti i nomi e gli anni in cui furono in carica i prevosti, e qualcosa si sa delle continue controversie tra i monasteri tirolesi e quelli bavaresi. Non poche volte però, segno della considerazione che i prevosti che si succedettero alla guida del monastero, i loro nomi compaiono a titolo di testimoni in documenti e atti ufficiali. Tutta la serie dei prevosti, col nome e col periodo di governo, si trova affrescata all’interno del convento di Muri-Gries. Il capace e stimato prevosto Werner (1245-1264) ottenne il 22 settembre 1251 da papa Innocenzo IV (1432-1254) per sé, per il convento e per i fedeli una lettera d’indulgenza, stabilente 40 giorni d’indulgenza per coloro che a determinate condizioni in particolari festività visitassero la chiesa “Sanctae Mariae de Augea”. Da un documento datato durante il governo del prevosto Heinrich II Mulser (1264-1292) si rileva che il convento era situato “in insula”, perciò continuamente soggetto alla minaccia delle acque che lo circondavano. Sotto il prevosto Engelmar (1292-1295) appare per la prima volta una donazione di un vigneto al convento In Augias, datata maggio 1295, il primo atto di questo genere conservato nell’originale. Maggiori notizie si hanno con l’inizio del XIV secolo. Con il prevosto Berchtold Maiser (1305-1329) la situazione del monastero migliorò sia economicamente (tra l’altro ottenne l’esenzione dal dazio per l’importazione di sale da Hall e per l’esportazione di vino e cereali) che dal punto di vista religioso; nel 1320 il monastero si confederò con i benedettini di Monte Maria in Val Venosta per quanto concerne le funzioni religiose per i vivi e i defunti. Riuscì anche a procurarsi da papa Giovanni XXII (1316-1334) una lettera in cui si concedeva l’indulgenza per coloro che visitavano la chiesa conventuale e facevano un’offerta. La lettera porta in calce ben 12 sigilli di arcivescovi e vescovi. Anche il principe vescovo Enrico III di Trento (1310-1336) fu ben disposto verso i canonici e cedette loro oltre ad altre due parrocchie l’ospizio, e la relativa parrocchia, di S. Maria di Senale; l’ospizio era sin dal XII secolo una sede di ospitalieri pr la cura dei viaggiatori e dei pellegrini che transitavano dal passo Palade (1567 m.), ma a quel tempo era caduto in disuso. Per continuare tale forma di assistenza si formò ben presto una piccola comunità di canonici di S. Agostino, alle dipendenze del convento “in Augias” di Bolzano. Senale si sviluppò in importante luogo di pellegrinaggi mariani, con la sua grande chiesa gotica del 1432 e l’immagine votiva della metà del XV secolo. Pur vivendo il monastero una vera e propria fioritura per il sostegno da parte delle autorità religiose e temporali, i suoi edifici erano continuamente in pericolo a causa delle continue alluvioni, causate anche da infelici regolazioni dell’Isarco e della Talvera. Per porvi rimedio si provò di tutto, senza raggiungere in effetti protezione e sicurezza. Altre calamità si aggiunsero durante il governo del prevosto Heinrich IV (1329-1341), che fu nominato cappellano di corte del principe territoriale del Tirolo, duca Giovanni di Carinzia; il Tirolo dovette subire, a guisa di “piaghe d’Egitto”, la peste, la guerra, le cavallette, il terremoto, l’interdetto; le alluvioni in tale periodo furono ancor più violente; si dice che nel 1337 dal Virgolo si potesse raggiungere in barca la chiesa parrocchiale di Bolzano. Memorabile fu il 1338, precisamente il 24 agosto, quando giunsero da est sciami di cavallette così fitti da oscurare il sole, tanto da recar più danno, nelle ultime settimane di invasione, che eserciti di Unni, evento che si ripetè per i successivi due anni. Anche il prevosto Heinrich ottenne una lettera papale d’indulgenza, concessa da papa Benedetto XII (1334-1342), che prese sotto la sua protezione il prevosto e il convento, confermando tutti i privilegi “monasterii Augensis”. Nel 1343, sotto il prevosto Johannes II di Suneburg (1361-1385), si dovette riconsacrare la chiesa; ciò per i grandi lavori di restauro effettuati a causa dei danni provocati dalle alluvioni. Al tempo del prevosto Johannes III di Colonia (1361-1385) ci fu, precisamente il 26 gennaio del 1363, la solenne consegna della contea del Tirolo all’arciduca Rodolfo IV d’Austria (1363-1365, tramite la principessa territoriale Margherita Maultasch (1318-1363). Parve che con tale passaggio le cose andassero al meglio, poichè nel 1370 i nuovi principi territoriali, arciduchi Alberto e Leopoldo, confermarono al convento In Augias tutte le protezioni e i titoli esistenti e si impegnarono per la loro continuazione. Ma la catastrofe non era più evitabile; sempre più frequenti erano le rotture degli argini, per cui i flutti dall’Isarco e dalla Talvera stringevano dappresso gli edifici conventuali. Le continue spese per le protezioni portarono il prevosto Johannes IV Haunold (1385-1402) al tracollo finanziario, cui si accompagnò anche un declino della vita conventuale. In questa precaria situazione, non ritenendo i canonici più salvabile il convento, il prevosto Christoph (1402-1417) chiese aiuto al duca Federico IV, detto Tascavuota (1406-1439), ma ad intervenire decisamente fu il fratello di questi, Leopoldo IV, il quale donò come rifugio alla provata comunità religiosa, con atto del 22 febbraio 1406, il proprio castello di Gries presso Bolzano. E l’aiuto giunse proprio tempestivamente, dato che circa un anno dopo le acque della Talvera e dell’Isarco, come si narra in un documento del 31 gennaio 1407, rovinarono sul convento “in Augias” distruggendolo. Dovendo i canonici provvedere all’adattamento del castello per farne un convento, furono nel frattempo ospitati nella canonica della parrocchia di Gries. Fu nel 1411 che i canonici poterono entrare nella loro nuova dimora, nella quale entrò anche quanto si era posto in salvo e conservato della precedente sede, come l’archivio, i paramenti, le reliquie dei fondatori; vanno aggiunte anche le colonne romaniche del chiostro inferiore. L’antipapa Giovanni XXIII (1410-1415) confermò con Bolla del 23 gennaio 1412 il trasferimento del convento e due anni dopo, il 15 ottobre 1414, conferì al prevosto Christoph (1402-1417) l’uso delle insegne episcopali, pastorale, mitra e altri pontificali, diritto che i canonici si fecero confermare dai successivi papi legittimi Martino V (1417-1431) e Nicolò V (1447-1455), così come tutti i diritti e privilegi del convento. Al prevosto Christoph si deve la trasformazione della cappella del castello in chiesa conventuale. Altro provvedimento, l’incorporazione nel nuovo monastero della parrocchia di Gries, che ebbe dal 30 luglio 1413 come parroco un canonico agostiniano, Heinrich Hoder. Per l’eccessiva indulgenza del prevosto Hartung (1439-1455) la disciplina conventuale andò decadendo, per cui fu provvidenziale la riforma dei monasteri introdotta dal vescovo di Bressanone Nicolò cardinal Cusano (1450-1464), per cui anche a Gries fu ristabilito l’ordine. Figura di spicco tra coloro che guidarono il convento di Gries è il prevosto Georg Reichsdorfer (1474-1491); all’inizio del suo governo furono confermati dall’arciduca Sigismondo i diritti e privilegi del convento, con la precisazione di ciò che al tempo della donazione del castello non era stato specificatamente e chiaramente menzionato. Ci furono comqune delle controversie, verso la fine del suo periodo di governo, tra il prevosto e il principe territoriale, sulle quali nel 1490 si giunse a Bolzano ad un accordo, il cui esito fu confermato lo stesso anno dall’imperatore Massimiliano I (1493-1519). Come membro della municipalità di Gries il prevosto Georg doveva contribuire agli oneri; ciò si verificò in particolare nel XV secolo quando si rivelò e crebbe via via il pericolo dei Turchi. Il convento dovette contribuire finanziariamente all’equipaggiamento e all’armamento delle compagnie di Gries. Il convento di Gries, in origine un castello, non ebbe bisogno di fortificazione, come quella che dovette apprestare il convento di Novacella, ma tutti gli uomini abili alle armi dovettero essere organizzati per la guerra. I sei quartieri in cui era suddiviso Gries avevano il proprio caposchiera, a loro volta sottoposti ad un comandante. L’armamento degli abitanti posti a difesa era costituito principalmente da corazza, alabarda e moschetto. Verso la fine del XV secolo non ebbero certo buona fama i prevosti che si susseguirono, in particolare Johannes IX Fabri (1512-1515), che lasciò persino cadere completamente in disuso il servizio divino. La situazione migliorò con il prevosto Melchior Barth (1515-1521), che dovette anche affrontare la peggiorata situazione economica, riuscendo ad accertare e a far riconfermare quanto il monastero aveva ottenuto da papi, vescovi e principi. Così nacque nel 1519 il volume con la trascrizione di 49 atti, effettuata da un notaio imperiale di Trento alla presenza di diversi testimoni; sono 65 fogli legati con nastro in seta, munito di sigillo. Il prevosto Melchior fece installare nel 1517 un torchio con un potente albero a vite; decorato dal carpentiere col nome del prevosto, fece il suo servizio fino al 1897, quando fu sostituito da una pressa più moderna. Al tempo del prevosto Albert I Probst (1521-1532) Gries non fu risparmiata dai conflitti religiosi, sociali e politici dell’epoca, quali l’irrompere del protestantesimo e la rivolta dei contadini tirolesi. Nel maggio 1525 i contadini iniziarono le devastazione presso la nobiltà e il clero di Bressanone, attaccarono poi Velturno, il convento di Novacella e altri luoghi; la sedizione si spostò poi a Bolzano, dove il 13 maggio i contadini di Rencio, capeggiati da un certo Leonhard Jöchler, posero mano alle armi depredando la casa dell’Ordine Teutonico, mentre quelli di Gries presero d’assalto il convento degli agostiniani. Passata la tempesta, con l’aiuto del principe territoriale si riuscì a recuperare gran parte degli oggetti trafugati. Oltre alla perdita di oggetti preziosi, il monastero dovette subire altre calamità, come nuove alluvioni che devastarono i possedimenti del convento. A ciò si aggiunse il decadimento della morale, che per l’influenza delle idee del tempo era penetrato anche tra le mura del convento. Una certa ripresa della Chiesa coinvolta negli aspri conflitti legati alla Riforma si ebbe con il Concilio di Trento (1545-1563). Fu negli anni immediatamente successivi che a guidare il convento di Gries fu il prevosto Paul Schröter (1571-1596); tra le decisioni del Concilio vi era quella di curare con sollecitudine e scrupolosità la formazione dei candidati al sacerdozio e che fossero all’uopo costruiti appositi seminari. Fu appunto l’allora vescovo di Trento a preoccuparsi di realizzare quanto auspicato e di costruire perciò un seminario. L’intenzione era di procurarsi i mezzi necessari con tassazione straordinaria a carico di conventi e sacerdoti. Il convento di Gries si oppose a ciò trovando nel protettore arciduca Ferdinando III un difensore della propria posizione. In effetti in quel tempo il convento non versava in floride condizioni economiche, cosa per cui i prevosti si dovettero preoccupare di migliorare la situazione del convento sotto l’aspetto economico, dovendo anche affrontare vertenze, come quella annosa sui diritti di pesca. Particolare zelo e dedizione nell’amministrare il monastero l’ebbe il prevosto Nikolaus Schueler o Scolaris (1596-1621), che mostrò anche grande interesse per l’arte. Passione di costruire l’ebbe particolarmente il prevosto successivo Balthasar Baur (1621-1638), il quale, come testimonia il canonico Felix Wild nel suo catalogo dei prevosti, “ha costruito molte cose utili e restaurato edifici”; tra l’altro il prevosto Baur nel 1629 fece restaurare tutti i cinque altari della chiesa conventuale. A quel periodo risale l’arricchimento della biblioteca conventuale, con opere di contenuto teologico, ma anche edizioni di classici latini. Il prevosto Balthasar, che per i suoi molteplici interessi si rese benemerito del convento di Gries, morì il 10 gennaio 1638. Una macchia scura nella storia del convento di Gries fu invece la gestione da parte del successore Matthias Fusger (1638-1656). L’infelice prevosto aveva una smodata passione per il gioco e nei mesi estivi si recava con i signorotti di Bolzano sul Renon a giocare somme rilevanti, giungendo a perdere in un solo giorno un paio di buoi; non per niente nella serie dei prevosti gli viene attribuita come blasone una carta da gioco. Il prevosto inoltre, che non aveva senso dell’economia, svendette beni del monastero; sia lo stesso convento che nobili e cittadini di Gries nel 1641 gli mossero accusa presos il Vicario generale a Trento. Ne sorsero e si dilungarono cause e processi che causarono non poco dispiacere e scandalo sia al convento che al popolo. Nel 1656 il prevosto, che fu anche accusato per la sua condotta nei confronti delle donne e per favorire i parenti, rassegnò le dimissioni a papa Alessandro VII, che il 23 aprile 1657 emanò un Breve. Il convento dovette comunque corrispondere una pensione annuale di 80 ducati all’ex prevosto “Fuscus”, che morì a Trento nel 1668. Nel Breve del 1657 il papa aveva designato il nuovo prevosto nella persona di Johannes Chrysostomus Haberle von Habersburg (1657-1674); questi, canonico proveniente da Novacella, giunse a Gries col canonico Felix Wild, il quale, chiamato per assistere i confratelli nel momento difficile, era grande amante della storia oltre ad avere buone doti nel disegno e nella pittura; fu lui a scrivere tra l’altro, oltre a cronache del convento di Gries, un Mortilogium (Libro dei morti), che contiene i nomi di tutti i canonici deceduti nel convento In Augias-Gries fino al 1673; suo è anche l’elenco dei prevosti di Augias-Gries, Novacella e S. Michele all’Adige. Deceduto il 2 novembre 1681, è sepolto con diversi canonici di Novacella nel cimitero di Gries. Il nuovo prevosto Johannes Chrysostomus, pio e responsabile prelato, si mostrò un vero riformatore della casa di Dio a lui affidata. Si preoccupò subito per il rinnovamento interiore del convento, che aveva sofferto non poco per le circostanze precedenti, per cui cercò di sollevare il clima spirituale con discorsi stimolanti e frequenti conferenze, esortando insistentemente a utilizzare bene il tempo, studiare diligentemente, curare la preghiera, esercitare il silenzio, assolvere secondo le regole i doveri della preghiera corale, non andare a Bolzano senza necessità, recitare quotidianamente il Rosario ecc. Ma il convento di Gries raggiunse il punto culminante dal punto di vista spirituale e materiale con il lungo governo di Franz Josef Schaitter zu Lebmannsegg (1698-1752), che si può considerare il vero rigeneratore del convento. Il nuovo prevosto rivolse la sua attenzione alla cura della vita religiosa; per rinvigorirla chiese all’abate generale dei canonici agostiniani della Basilica lateranense a Roma, Athanasius Clappini, di ammettere nella loro congregazione il convento di Gries, che comunque era da tempo confederato con altri monasteri (nel 1517 furono ben 91 i conventi con i quali era legato spiritualmente). L’atto di ammissione è datato 19 dicembre 1699; da allora i canonici di Gries si chiamarono Canonici regolari lateranensi, mentre il prevosto ottenne il titolo di abate lateranense. Questo collegamento alla congregazione romana fu rinnovato nel 1727 e approvato da papa Benedetto XIII (1724-1730). Oltre ad altri privilegi il prevosto ottenne la potestà di consacrare chiese, calici, paramenti, campane ecc., potestà di cui Schaitter non mancò di far uso se dal 1699 al 1731 consacrò ben 231 campane, come risulta dall’elenco fatto da lui stesso. Altro elenco fece circa i candidati al sacerdozio, ai quali impartì la tonsura e gli ordini minori; molti di essi provenivano dalla nobiltà tirolese. Le richieste di ammissione furono in effetti numerose, tanto che nel giugno 1741 il prevosto ebbe a scrivere che il convento era strapieno, per cui dovette essere ampliato. Il prevosto Schaitter, specie in occasione della festa di S. Agostino, il 28 agosto, teneva lunghi discorsi ai confratelli, con citazioni della Sacra Scrittura e dai Padri della Chisa, esortandoli a rispettare i voti, in particolare l’obbedienza, a lavorare con zelo e ad osservare l’ordine del giorno. Vietò loro di frequentare osterie e mangiare e bere al di fuori dei pasti; la sua instancabile cura per promuovere la disciplina non era ingiustificata, visto l’esempio dato dal canonico Martin Grunstner, che nel 1729 dovette esser licenziato per riprovevole e incorreggibile condotta. Lo zelo del prevosto diede i suoi frutti, come ebbe a riconoscere il vicario generale di Trento, Johann Michael Wenzelslaus von Spaur, in occasione di una sua visita pastorale a Gries. Nel 1717 anche il convento di Gries dovette adempiere a quanto prescritto dall’arcivescovo di Trento Johann Michael von Spaur, il quale gli aveva inviato copia della Bolla di papa Clemente XI, datata 15 febbraio 1716, con la quale l’imperatore Carlo VI (1711-1740) veniva autorizzato a riscuotere, sulle entrate di abbazie, conventi, cappellanie e chiese ecc. una “tassa dei turchi”, nella misura del 10 per cento per tre anni. Il prevosto Franz Josef Schaitter potè rispondere all’arcivescovo il 16 dicembre 1717, assicurando circa il pagamento annuale di 476 fiorini. Fece sì un tentativo di chiedere una riduzione del debito, ma col timore che gli succedesse come all’abbazia di Stams, che si trovò a pagare, dopo avere inviato una lamentela, 18 mila fiorini anzichè 12 mila. In effetti anche i rapporti tra il prevosto Schaitter e le autorità laiche furono talvolta guastati per lo più a causa di frequenti pretese di denaro; a motivo delle varie guerre, oltre a crescere le imposte, i conventi dovevano fare dei prestiti allo Stato, il quale, oltre a sopravvalutare le entrate del convento di Gries, iniziò anche ad immischiarsi nelle questioni intraconventuali. Iniziava così il tempo del “giuseppinismo”: già durante l’elezione del prevosto il governo di Innsbruck aveva intimato al convento di indicare le funzioni religiose che venivano tenute per i fondatori e i benefattori, soprattutto per la Casa d’Austria. Il governo si mostrò insoddisfatto della prima risposta, che tra i benefattori menzionava Enrico (avvocato di Trento e Bressanone, duca di Carinzia e conte del Tirolo nonchè re di Boemia dal 1307 al 1310, che aveva donato al convento di Gries 200 Marchi), per il quale, deceduto nel 1335, si celebrava un rito di suffragio il 2 aprile, mentre il 14 marzo si pregava per il fratello Ottone, anche lui duca di Carinzia e conte del Tirolo, deceduto nel 1310; il segretario Auberstorfer dovette inviare un elenco più esauriente, dal quale risultava che negli anniversari in esso indicati si celebravano tre S. Messe per i fondatori e benefattori, prima di tutto per l’arciducale Casa d’Austria. I conventuali avevano inoltre l’obbligo, nella memoria dei vivi e dei morti, di pregare per i benefattori e per i fondatori. Una speciale ricorrenza veniva celebrata, il 26 novembre, per il conte Morith-Greifenstein e la sua consorte Matilde come fondatori del convento In Augias. Il prevosto Schaitter, che diede il suo apporto alla fondazione a Gries del convento “Rottenbuch” delle Celestine, fece molto per l’abbellimento delle chiese e per una degna tenuta del servizio divino. Il suo nome e il suo blasone si trovano su paramenti e arredi sacri. Tale prevosto si distinse anche nella sua attvità di economo, come dimostrano i numerosi documenti esistenti nell’archivio conventuale, come quelli concernenti l’acquisto di beni, da lui sottoscritti al fine di accrescere i possedimenti del monastero. Si interessò anche, però, per una buona formazione delle nuove leve del convento; allo scopo introdusse uno studio filosofico-teologico incaricando all’uopo un docente. Arricchì inoltre la biblioteca con nuove e raffinate opere, tuttora in dotazione. Ebbe grande interesse anche per la musica, e ci teneva, oltre alla buona disposizione per essa da parte dei candidati al sacerdozio, alla celebrazione festosa delle funzioni liturgiche e al mantenimento di un clima gioioso nella comunità. Verso la fine del XVII secolo giunsero da Roma e dall’Ordinariato severe disposizioni contro l’uso delle parrucche e di abiti civili da parte dei religiosi. Trento vietò severamente anche il portare capelli lunghi, senza un certificato medico. Solo su presentazione di tale certificato, il vescovo permise al prevosto Schaitter di portare la parrucca, ma solo in caso di necessità, ammonendolo però di evitare la vanagloria. Pieno di meriti per il bene delle sua comunità religiosa, il prevosto Franz Josef Schaitter, dopo 66 anni da religioso, 63 da sacerdote, 54 da prevosto del convento di Gries, morì, a 86 anni, il 31 dicembre 1752. Anche il suo successore Albert II Prack (1753-1781) rivolse piena attenzione alla vita conventuale. Anche lui, il cui esempio fu di incoraggiamento ai confratelli, tenne diligentemente discorsi, scriveva però in latino. Grande collaborazione gli venne dai decani, per cui non dovette preoccuparsi molto per il comportamento dei conventuali. Ebbe modo di gioire per il numero delle nuove vocazioni, tra esse il futuro prevosto Augustin Nagele, che un anno giunsero a sette. Mentre il rapporto del prevosto Albert Prack con le autorità ecclesiastiche e con il clero fu in complesso buono, non si può dire lo stesso per quello con le autorità laiche. Si manifestò sempre più ciò che si era delineato durante il governo del suo predecessore, l’intervento del governo austriaco in attuazione di quanto è noto sotto il nome di “giuseppinismo”. Il governo si immischiò sempre più nella vita della Chiesa e colpì pesantemente i conventi con prescrizioni di ogni tipo, come il decreto che imponeva ai conventi di presentare un rendiconto delle attività e passività. Il prevosto Prack, dopo aver interpellato la curia vescovile, provò ad inviare dei dati sommari, ma il governo chiese immediati chiarimenti, pretendendo anche l’elenco di tutti i possedimenti con esatta indicazione dei confini delle varie proprietà. Altre prescrizioni riguardavano i chierici, l’età minima per i voti, la dote per i novizi, gli introiti di parroci e curati ecc. Fu vietato il collegamento con altri conventi sia nella regione che stranieri. Le varie misure da parte dello Stato non impedirono però al prevosto di dedicare piena attenzione alla chiesa conventuale e alle parrocchie. Anzi, a tale abate si deve la costruzione della nuova chiesa conventuale, quella attuale, in sostituzione di quella gotica esistente; la affidò all’arte e maestria dell’architetto e scultore Anton Josef Sartori. Sartori adempì in modo egregio al suo compito, tanto che la chiesa abbaziale di Gries viene annoverata tra le più belle chiese barocche della provincia; l’8 aprile 1769 si posò la prima pietra, nel 1771 si arrivò al tetto, la chiesa fu consacrata il 31 agosto 1788. Essa è considerata un vero e proprio museo “Knoller”, perchè vi contiene alcune tra le opere migliori del celebre pittore Martin Knoller. Le ingenti spese per la costruzione della chiesa misero però il convento in difficoltà finanziarie. Di ciò approffittò il governo austriaco, che alla morte di Albert Prack non consentì l’elezione di un nuovo prevosto. Ci fu un periodo di interregno, dal 1781 al 1790, per due volte ci fu la minaccia di soppressione del convento. In tale periodo la guida del convento, nelle questioni sia spirituali che temporali, fu nelle mani del decano Ignaz Ferrari, affiancato come segretario e amministratore da Augustin Vigil Nagele; su desiderio del principe vescovo Pietro Vigilio conte Thun (1776-1800) i membri del capitolo concordarono per l’elezione di un amministratore, cui affidare la direzione complessiva del monastero pur senza il titolo di prevosto. Il 5 maggio 1783 fu eletto il canonico ventinovenne Augustin Nagele, il quale si distinse come abile e dotato amministratore del convento di Gries fino al 1787, anno in cui fu incaricato di svolgere le funzioni di abate a Stams. Con la morte, nel 1790, dell’imperatore Giuseppe II il convento di Gries potè tirare un sospiro di sollievo; le richieste al successore Leopoldo II (1790-1792) di ripristinare il precedente stato di cose andarono a buon fine, in quanto il nuovo sovrano acconsentì alla rielezione del prevosto, che ebbe luogo il 5 ottobre 1790. A larga maggioranza, 12 su 17 elettori, fu scelto Augustin II Nagele (1790-1807), che fu l’ultimo prevosto di Gries. Durante la sua assenza il convento era stato guidato da Roger Schranzhofer, il quale come “abate commendatario” (dal latino “commendare”: affidare) aveva il compito di amministrare i beni per conto dello Stato; era retribuito in base alle entrate e non era tenuto ad occuparsi della vita conventuale. Un avvenimento di rilievo di quegli anni fu la consacrazione, il 31 agosto 1788, da parte del principe vescovo di Trento della nuova chiesa conventuale, che divenne anche la nuova chiesa parrocchiale di Gries, mentre la vecchia fu chiusa. Il provvedimento del principe vescovo, che non aveva interpellato in merito la popolazione, suscitò indignazione sia a Gries che a Bolzano. Si creò anche un partito favorevole alla decisione; in una petizione di 33 cittadini di Gries si sollecitava che fosse consegnato quanto necessitasse per il servizio divino. Ciò in quanto la nuova chiesa era più comoda per il popolo ed era comunque già stata auspicata come chiesa parrocchiale al momento della sua costruzione; si chiedeva altresì che il governo concedesse che si continuassero le esequie nella vecchia chiesa. Dopo un periodo di relativa calma, ai primi di giugno 1790 ci fu un’assemblea alquanto animata di contadini che con varie minacce esigevano dall’abate commendatario Schranzhofer che fosse riaperta la vecchia chiesa. Schranzhofer riuscì ad evitare violenze e permise i servizi funebri. Ma poco dopo Augustin Nagele appena eletto prevosto fece di nuovo richiudere tale chiesa. Alcuni mesi più tardi una delegazione di Gries si recò dal principe vescovo; l’incontro ebbe qualche esito favorevole, se negli anni successivi il decano potè celebrare il servizio divino nei giorni festivi nella vecchia chiesa. Ma fu il governo bavarese nel 1806 a porre termine alla disputa, con la chiusura definitiva e la sconsacrazione della chiesa, che fu riaperta nel 1847 dal benedettino Leodegar Kretz, che la fece ristrutturare, riconsacrare e abilitarla al culto. Anche il nuovo prevosto, come il suo predecessore Prack, dedicò molta attenzione alla formazione delle nuove generazioni. Riuscì inoltre a ottenere dal governo austriaco il permesso di riammettere novizi. Le nuove speranze destate da Augustin Nagele furono però definitivamente annientate dai tempi burrascosi delle guerre francesi. Gli eventi bellici spinsero l’Austria a contrarre prestiti, a sottoscrivere i quali furono invitati specialmente i conventi. Poichè ormai le truppe francesi stavano invadendo il Tirolo, a metà del 1796 si radunarono le personalità più eminenti del Tirolo, tra esse anche il prevosto Nagele (che faceva parte anche del consiglio provinciale di Innsbruck). Si discusse sul reclutamento di truppe, sul loro mantenimento e pagamento. Si decise inoltre, per ottenere l’aiuto di Dio, di celebrare ogni anno in forma solenne la festa del Sacro Cuore di Gesù. Per l’attuazione delle decisioni fu incaricata una commissione di difesa territoriale; di quella concernente il Tirolo meridionale fece parte anche il prevosto Augustin, il quale si impegnò per raccogliere fondi, assoldare diversi “Schützen” a proprie spese; fu assiduamente presente alle sedute deliberanti le misure di difesa, nell’intento di contribuire energicamente a proteggere il paese dal nemico. Gli anni di guerra non risparmiarono il monastero e la popolazione di Gries. Già nel 1793 si erano dovute approntare delle strutture per isolare dei soldati malati di tifo, nel 1796 il convento fu adibito a ospedale militare, fu riempito tra celle e corridoi di oltre trecento ammalati e feriti, tanto che i canonici dovettero alloggiare in abitazioni private. Il numero dei malati, di cui gran parte morirono, giunse sino a mille. Si dice che nel periodo 1796-1809 circa 6 mila salme di soldati siano state deposte in fosse improvvisate presso San Maurizio, dove la cosiddetta “Croce dei Francesi” fa memoria di tale cimitero. Anche tra i canonici, che dovettero improvvisarsi infermieri, non pochi furono contagiati e morirono. Non mancarono gli episodi di violenza: il 3 aprile 1797 ci fu a Gries un violento scontro a fuoco, nel corso del quale i francesi irruppero nel convento sospettando che vi fossero nascosti degli “Schützen”. Constatato che non ce n’erano, si riversarono comunque per i corridoi rubando e devastando. In questi giorni molto pericolosi si mostrò come impavido e fedele segretario del convento il prelato Josef Lofferer, che prendendosi a cuore il convento e i suoi beni come se fosse cosa propria riuscì ad evitare il peggio.Vicende analoghe si ripeterono negli anni 1799-1801 e nel 1805. Nonostante la follia della guerra e le incessanti intromissioni del governo nella vita conventuale, il prevosto Nagele cercò in tutti i modi di ripristinare la vita religiosa, allentatasi negli anni dlel’ “interregno”, non solo all’interno del convento, ma anche nella cura d’anime delle parrocchie affidate ai canonici. Anche il prevosto Nagele era un’amante dell’arte e delle scienze, per cui riprese i contatti con il pittore Martin Knoller, a quel tempo a Milano, perchè riprendesse l’abbellimento della chiesa.Il pittore rispose con le sei pale degli altari laterali (Storie di Cristo). La vita del convento si stava normalizzando quando il prevosto dovette subire il dolore più grande della sua vita; non potè sfuggire alla tragica sorte di vivere la fine del suo monastero. Nel settembre 1807 il governo bavarese (il Tirolo era stato ceduto alla Baviera a seguito della pace di Prebburg del 1805) decretò la soppressione del convento di Gries. Nagele molto provato morì il 24 agosto 1815 e fu sepolto nel vecchio cimitero di Gries. Ma il monastero non rimase spopolato a lungo. Nel 1845 Gries riprese a vivere come convento benedettino; in tale anno infatti, e precisamente il 24 giugno, giunsero a Gries dei monaci benedettini i quali, cacciati da Muri (nel cantone svizzero di Aargau), fondarono una nuova vita monastica nel complesso conventuale abbandonato. Il ripopolamento di Gries fu possibile soprattutto grazie al celebre cancelliere di Stato, principe di Metternich, oltre che allo stesso imperatore Ferdinando I (1835-1848). La ripresa del monastero era stata auspicata anche dalla popolazione. I nuovi monaci erano giunti a seguito della soppressione dell’antico monastero svizzero di Muri, risalente all’XI secolo, fondato dai conti d’Asburgo, predecessori della gloriosa dinastia di sovrani; i monaci avevano dovuto lasciare il loro amato convento in pieno inverno, con freddo intenso e in mezzo a uno tormenta di neve. Una parte di essi era riparata a Sarnen, nel cantone di Obwalden, il resto aveva trovato una nuova patria a Gries, assumendo l’eredità dei canonici di S. Agostino. Nel 1847 ebbe luogo la conferma da parte statale della presa di possesso, nel 1852 quella di papa Pio IX (1846-1878). Prima di entrare nel convento di Gries l’abate di Muri Adalbert Regli volle esser debitamente autorizzato da papa Gregorio XVI (1831-1846), che il 7 settembre 1844 permise di assumere gries come priorato di Muri, per cui l’abate rimase abate di Muri con sede a Gries e nel contempo priore di Gries. Le difficoltà successive al trasferimento del gruppo di monaci non furono poche, ma furono superate, tanto che in autunno vennero altri confratelli e si presentarono anche dei candidati. Il 27 ottobre 1847 ci fu la conferma da parte statale della presa di possesso, nel 1852 quella di papa Pio IX (1846-1878). La nuova comunità religiosa sulla base di precisi accordi con le autorità civili locali, con quelle ecclesiastiche e politiche, sistemò il quadro giuridico della propria permanenza, potendo così dedicarsi alla piena ripresa della vita conventuale nello spirito dei monaci di Muri, anche se l’abate dovette nel contempo sovrintendere anche alla parte di monaci rimasta a Sarnen. L’abate Adalbert Regli (1845-1881), che è da considerare il fondatore di Muri-Gries, fu alle prese anche con seri problemi economici, per rimediare agli anni di occupazione del convento da parte dei soldati, all’asportazione di mobili, all’utilizzo della chiesa come magazzino. Durante il suo governo ci furono diversi lavori di ristrutturazione del convento, concernenti tra l’altro la cantina, la biblioteca, la sala ricreazione. Ma l’abate fu in prima linea, dando lui stesso l’esempio, anche per una fedele osservanza della Regola benedettina. Riuscì ad ottenere dall’arcivescovo di Trento l’introduzione di studi teologici nel convento e di istruire con le proprie forze i chierici. L’abate crebbe con gli anni nella pubblica considerazione, per la sua modestia, per la sua saggezza nei consigli, per la sua competenza. Per lungo tempo fu consigliere comunale di Gries, fu eletto più volte alla dieta del Tirolo. Per la sua attività gli furono conferite diverse onorificenze. Pur con la sua notorietà l’abate non trascurò chi era nel bisogno, e ne è prova la sua intensa attività caritativa a favore di poveri e bisognosi, attività che estese, come mostrano numerosi documenti dell’archivio, a favore di chi, come chiese, conventi, istituzioni educative, privati, si rivolgeva con lettere di supplica al generoso benefattore. Profuse il suo impegno anche anche nel campo della cura d’anime, degli esercizi spirituali, ecc. A lungo andare, anche per l’avanzare dell’età, diminuirono le forze dell’instancabile abate, costretto anche ad una severa dieta.. Alla fine del 1880 si rivelarono i sintomi dell’idropisia che lo condusse alla morte il 5 luglio 1881. Riposa tuttora nel cimitero della vechcia parrocchiale di Gries, sotto una semplice lastra di marmo davanti all’ingresso principale. Gli abati successivi proseguirono sulla via tracciata da Adalbert Regli, tanto che nel 1895, mentre alla guida del convento era Augustin Grüniger (1887-1897), si potè celebrare con un bilancio positivo i 50 anni del monastero di Muri-Gries: l’albero piantato aveva fatto buone radici e si era ben sviluppato. A varcare il secolo come abate di Gries fu Ambros Steinegger (1897-1913), piccolo di aspetto ma pieno di vitalità, il quale era il primo abate nato nel Tirolo meridionale. Il suo periodo di governo, che iniziò all’età di 63 anni, fu riempito di progetti di vario genere, ristrutturazioni edilizie, frequenti viaggi, mentre curava attentamente l’andamento della vita religiosa, esortando a migliorarsi i più negligenti, dando egli stesso il buon esempio. Tra le migliorie ci fu quella nel chiostro inferiore, che stava crollando e nella sala di ricreazione. Attento alle novità della tecnica, introdusse la luce elettrica e fece installare le condutture d’acqua. Una questione che gli stava a cuore era l’istituzione di un istituto magistrale; allo scopo nell’aprile 1899 ci fu nel convento di Gries un’affollata assemblea: oltre ai principi vescovi di Trento e di Bressanone c’erano 60 sacerdoti, tra cui 6 decani. Dopo una relazione dell’abate Ambros sulla necessità di un istituto pedagogico, che trovò tutti concordi, si concordarono le modalità le modalità per la realizzazione. L’istituto, che poteva ospitare 80 allievi, fu inaugurato il 15 settembre 1902. Il primo decennio del nuovo secolo fu caratterizzato anche dal restauro della chiesa conventuale e parrocchiale, realizzato in accordo col municipio di Gries (Gries, staccato da Bolzano, era divenuto Comune nel 1850). L’abate fu instancabile anche nell’aiuto alle parrocchie affidate al convento, per cui si meritò anche la riconoscenza del popolo. I Comuni di Gries, Marlengo e S. Genesio gli conferirono la cittadinanza onoraria. Ammalatosi nel 1909, pur debilitato nel fisico, riuscì per lo spirito sempre vigile ad assolvere ai propri compiti, finchè lo colse la morte, il 3 febbraio 1913. Suo successore divenne, sette giorni dopo alla prima votazione, il decano del convento Alfons Maria Augner (1913-1938), un uomo di grande dirittura, di profonda fede nella provvidenza divina; grande adoratore dell’Eucarestia, aveva anche grande devozione alla Madonna, che non mancava di menzionare in ogni predica o discorso. Rigoroso nel fare osservare la pratica quotidiana della vita religiosa (che iniziava con la preghiera corale alle 4 del mattino), era il primo a dare l’esempio di ascetica vita monastica. Fu per questo che nei suoi 25 anni di governo riuscì ad affrontare con una certa calma i tempi burrascosi legati agli eventi politici. Si trovò ben presto nel clima della prima guerra mondiale, in quanto proprio a Gries si trovava il quartiere generale dell’armata austriaca del sud. Mentre per qualche tempo ci fu penuria di generi alimentari, furono arruolati anche alcuni membri del convento Ma la situazione peggiorò nel dopoguerra, dal punto di vista finanziario con la crisi economica degli anni venti. Le entrate non bastavano per il sostentamento dei monaci. A ciò si aggiunse la crisi politica; con il passaggio del 1918 del Tirolo del Sud all’Italia, il convento per la quarta volta nella sua storia cambiò i governanti; anzi, si potrebbe dire la quinta, poichè con l’avvento del fascismo la popolazione, e con essa il convento, fu veramente messa alla prova. L’abate Alfons si rese conto del pericolo e già nel maggio del 1923 si recò a Roma per ottenere da Mussolini protezione per l’abbazia. Ricevette sì dalle alte sfere delle assicurazioni sulla continuità del monastero, ma ciò non impedì alle autorità locali di espropriare possedimenti del convento e di costruire caserme e strade. A ciò si aggiunse nel 1925 il riaccorpamento di Gries al Comune di Bolzano, per cui non rimase che coltivare maggiormente il senso di appartenenza sul piano della comunità parrocchiale. La politica di industrializzazione, con la necessità di infrastrutture, portò ad ingrandire la città di Bolzano, che si sviluppò in particolare nell’area catastale di Gries; il convento perse così il suo carattere di convento di campagna per divenire convento di città. L’unico spazio verde che rimase al convento fu l’annesso prato col vigneto. Crebbe in quegli anni anche la popolazione di lingua italiana, mentre era in pericolo la stessa soprravvivenza delle peculiarità locali. La proibizione di scuole in lingua tedesca colpì nel 1923 anche l’internato dell’istituto magistrale promosso dall’abate Ambros Steinegger. Ma l’abate Alfons riuscì con tempestività a salvare l’edificio da un attacco dei fascisti e a costruirvi, dopo essersi consultato con l’arcivescovo di Trento, un centro di formazione della diocesi, che fu dapprima adibito a scuola tecnica agraria; ma anche questa, dopo un buon inizio, dovette essere chiusa; per due anni l’edificio fu utilizzato come convitto per gli studenti frequentanti le scuole cittadine e poi fu deciso di farne la sede di ritiri ed esercizi spirituali. Poichè era cresciuta la popolazione di lingua italiana appartenente alla parrocchia di Gries, si dovette integrare i monaci addetti alla cura d’anime con un nuovo collaboratore, nella persona del confratello Bertoldo Röllin (1901-1975), il quale, proveniente da Urnach, Cantone di St. Gallen, iniziò il suo servizio agli inizi degli anni ‘30. Per quarant’anni, incurante delle tensioni che si formavano tra i gruppi linguistici, padre Bertoldo si dedicò con grande capacità d’immedesimazione alla popolazione di lingua italiana, prestandole tutta l’attenzione nell’assistere i diversi gruppi: studenti, universitari, boy scout, militari, dame della San Vincenzo ecc.; in Quaresima per settimane saliva scale su scale per benedire le case e visitare le famiglie. Nonostante le afflizioni portate dalla guerra e dal dopoguerra, l’abate Alfons potè sperimentare dal punto di vista ecclesiale un periodo di fioritura, con la crescita di vocazioni per i seminari diocesani e per i conventi, per cui potè ammettere un ragguardevole numero di novizi. Per il grande numero dei nuovi arrivi si rese necessario ampliare lo stallo del coro nel presbiterio della chiesa. Quando nel 1938 si celebrò il giubileo dei 25 anni di carica dell’abate Alfons, il convento aveva raggiunto i 107 membri, numero massimo della sua storia. Nello stesso anno l’abate fu operato due volte nell’ospedale di Sarnen; con le forze indebolite non riuscì a far fronte all’angina che lo condusse alla morte; come aveva predetto qualche tempo prima, il grande devoto della Madonna morì l’8 settembre, festa della Natività di Maria. Il 19 settembre 1938, come 55° abate di Muri e sesto priore di Gries fu eletto il decano Dominikus II Bucher (1938-1945), 67 anni, al quale toccò reggere il convento negli anni terribili della seconda guerra mondiale; anche nella provincia di Bolzano si viveva in un’atmosfera di alta tensione, condizionata specialmente dagli accordi del 1939 tra i dittatori Hitler e Mussolini, che portarono a forte conflittualità nella popolazione: tra gli optanti (coloro che sceglievano di emigrare nel “Deutsches Reich”) e i “Dableiber” (coloro che volevano rimanere). L’abate Dominikus inoltre non fu mai sicuro circa l’eventualità di un colpo di mano dei fascisti sul convento. Con l’entrata in guerra dell’Italia anche la provincia di Bolzano fu pienamente coinvolta negli eventi bellici e la linea del Brennero acquistò fondamentale importanza come collegamento tra nord e sud. Ma furono i bombardamenti iniziati nel settembre 1943 a portare maggiore apprensione. Seppure l’area maggiormente interessata fosse quella ferroviaria, il convento utilizzò appieno le profonde cantine come riparo durante le frequenti incursioni aeree. Si contarono in quegli anni ben 400 allarmi aerei, 13 bombardamenti anglo-americani, 4 attacchi a bassa quota. Il convento se la cavò più che altro con grande spavento, specie quando qualche bomba cadde anche nel prato adiacente facendo andare in frantumi molti vetri. L’abate che per i tempi duri della guerra non potè adempiere in pieno e liberamente alle proprie funzioni, morì il 23 giugno 1945, la vigilia del giorno in cui si dovevano celebrare i 100 anni dall’arrivo a Griesa dell’abate Adalberto Regli con i suoi monaci di Muri, per cui invece delle campane festose da giubileo suonarono quelle a martello. Dati i tempi, fu incerto il come e quando procedere all’elezione del nuovo abate, alla quale dovevano partecipare anche i monaci di Sarnen; l’8 agosto i 32 monaci svizzeri riuscirono a partire e con vari mezzi e per vie traverse a raggiungere Gries dove il 10 agosto poterono partecipare all’elezione del nuovo abate, nella persona di Bernhard Kälin, rettore del ginnasio di Sarnen. Il nuovo abate di Muri-Gries durò in carica solo due anni, in quanto nel congresso degli abati svoltosi a Roma nel settembre 1947 fu eletto abate-primate. Come nuovo abate di Muri-Gries il 22 ottobre 1947 fu eletto il decano del convento, padre Stephan Kauf (1947-1962), che, forte dell’esperienza acquisita come stretto collaboratore del predecessore, potè dedicarsi ai vari aspetti della vita del monastero a lui affidato. Da una parte cercò di incoraggiare e rafforzare nel bene, anche in colloqui personali, i suoi confratelli, interessandosi della formazione dei giovani, dall’altra si dedicò all’abbellimento della casa di Dio, curando il restauro dei dipinti di Knoller, contribuendo così a dare nuova lucentezza alla stessa chiesa, la cui facciata fu rinnovata nel 1960. Introdusse in convento il riscaldamento centralizzato e l’acqua corrente nelle camere dell’ala sud del complesso. Fu modernizzata anche l’agricoltura, per cui buoi e cavalli furono sostituiti da trattori. Purtroppo all’evoluzione economica non corrispose l’ingresso di nuove leve. L’abate Stephan visse inoltre i cambiamenti legati allo sviluppo della città, conseguente alla crescita, anche nella zona di Gries, della popolazione di lingua italiana. Durante il suo governo per far fronte alle esigenze pastorali dei nuovi insediamenti sorsero in città nuove parrocchie, dopo quella, sorta nel 1940: quella di S. Giovanni Bosco (1948), Regina Pacis (1954), Pio X (1959). Sarebbero seguite poi quelle di Tre Santi (1963) e della Visitazione (1968). Ma non c’erano solo problemi di cura pastorale per gli abitanti di lingua tedesca, minoritari nei nuovi quartieri, per i quali si trovò qualche soluzione, tra l’altro con la celebrazione di una S. Messa festiva in lingua tedesca nella chiesa di Tre Santi e in quella dei Carmelitani (presenti in zona dal 1939). L’abate visse un periodo di trasformazione anche nel tessuto sociale del quartiere, con diversificazione di strati sociali nella comunità parrocchiale, così come moderni palazzi e agglomerati sostituirono masi ultracentenari circondati da campi e vigneti. Il convento dovette tener conto di tali cambiamenti, che col tempo influirono sulla religiosità stessa degli abitanti. Gli abitanti di Gries da sempre erano stati zelanti, a livello personale e associato, nella pratica religiosa e attaccati a certe forme devozionali. Negli anni ‘50 tutto ciò, anche a causa dello sviluppo economico, parve frantumarsi, per cui si verificò una certa secolarizzazione della vita sia privata che pubblica. Si aggiungano poi le novità che stava portando il Concilio ecumenico Vaticano II. L’abate Stephan Kauf ebbe grande interesse e si impegnò fortemente per il canto e per la musica. A lui si deve se il convento potè far venire da Einsiedeln un musicista come padre Oswald Jäggi, organista, compositore e direttore di coro; a padre Jäggi si deve la creazione della “Kantorei Leonhard Lechner” (intitolata al compositore locale morto nel 1606), un’istituzione, che raggiunse un ruolo di rilievo nel panorama musicale; alla “Kantorei” furono collegati un coro da camera, un coro di voci bianche e una biblioteca specializzata in campo musicale. Dopo 15 anni di cura paterna per il bene del convento, l’abate Stephan Kauf morì il 2 settembre 1962. Con gli abati successivi, Dominikus III Löpfe, eletto il 26 settembre 1962 e l’attuale abate Benno Malfèr, in carica dal 9 febbraio 1991, il monastero di Muri-Gries, come altri monasteri , visse e vive i grandi e piccoli cambiamenti portati dal Concilio Vaticano II. Gli abati ebbero ed hanno l’impegnativo compito di adeguare le radicate tradizioni e norme di vita monastica alle proposte di rinnovamento; si trattava e si tratta di rendere praticabili tali proposte senza far violenza alla vita monastica. Si doveva tra l’altro operare il passaggio dalla gestione paternalistica del convento ad un clima e ad una prassi di collaborazione, consultazione e intesa reciproca nell’ambito della intera comunità religiosa, nella quale i monaci sacerdoti e i fratelli laici si riconoscano convivendo fraternamente nella tensione al comune ideale monastico. Non era e non è allontanarsi dalle previsioni della regola di San Benedetto, anzi, forse era ed è corrispondere maggiormente al suo spirito secondo le intenzioni del fondatore. In congressi e convegni a vario livello gli abati hanno cercato di attuare l’ “aggiornamento” chiesto dal Concilio: la preghiera corale, in lingua tedesca, più corta ma più solenne attraverso il canto; la partecipazione alle decisioni anche dei “fratres” oltre che dei “patres”. Le pratiche di mortificazione e penitenza svolgono forse un ruolo secondario, in compenso si vive maggiormente la fraternità in tutte le situazioni di vita quotidiana. Il problema pù grande è costituito dalle nuove leve. Non mancano i candidati che bussano alle porte del convento, ma non molti hanno la costanza di rimanere per sempre. Così il monastero fatica non poco ad adempiere, oltre a ciò che comporta l’ “ora et labora” della Regola, a tutte le funzioni cui è chiamato: l’impegno pastorale nelle parrocchie incorporate al convento (attualmente S. Genesio e Avigna, oltre a S. Agostino di Gries; quella di Marlengo, affidata già nel 1394 ai canonici agostiniani e successivamente ai benedettini, nel 1955 è ritornata alla diocesi di Trento) e negli ambiti religiosi e teologici della Chiesa locale (la musica sacra e la formazione degli adulti, la scuola e l’insegnamento della religione, i ritiri e gli esercizi spirituali, la guida spirituale di persone in ricerca). Ma il monastero, scuola del servizio di Dio, è fiducioso che al di là di problemi e difficoltà lo sorregge quanto scritto dal fondatore “Sappi però che, progredendo nella vita monastica e nella fede, il tuo cuore si dilaterà e in una ineffabile dolcezza d’amore correrai nella via dei divini comandamenti. Di conseguenza, non lasceremo mai il suo insegnamento e perseveremo in monastero, nella sua scuola, fino alla morte; e così parteciperemo, mediante la pazienza, alla passione di Cristo per meritare di condividere anche il suo Regno. Amen! “ (Prologo alla Regola nr.49-50). Ritorno alla pagina iniziale "Storia del Monachesimo" | Ora, lege et labora | San Benedetto | Santa Regola | Attualità di San Benedetto | Storia del Monachesimo | A Diogneto | Imitazione di Cristo | Sacra Bibbia | 21 giugno 2014 a cura di Alberto "da Cormano" Grazie dei suggerimenti alberto@ora-et-labora.net

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