La MEDICINA NEL MEDIOEVO
LA MEDICINA
Nell'Alto Medioevo, a seguito della caduta dell'Impero Romano,
la conoscenza medica si basò principalmente sui testi greci e romani
sopravvissuti e preservati nei monasteri.
La medicina altomedievale fu essenzialmente una medicina pratica,
basata sull'insegnamento diretto e sull'uso di terapie consacrate dalla tradizione.
Dal punto di vista pratico, quindi, differì poco da quella dell'antichità.
Pare che nell'alto medioevo non esistessero veri e propri centri di insegnamento
e l'acquisizione di quest'arte avveniva direttamente
tra maestro e discepolo o tra padre e figlio.
Un discorso a parte dovrebbe essere fatto per i medici ebrei,
di cui troviamo numerose testimonianze nelle fonti altomedievali;
per loro ovviamente non valevano i preconcetti cristiani sulla medicina,
per cui, avevano continuato ad esercitare, basandosi sulla tradizione medica antica.
La cura fisica, per il cristiano, invece, era subordinata a quella spirituale,
l'assistenza ai malati veniva considerata come un vero atto di carità cristiana,
espressione dell'amore verso Dio.
Detto questo non esisteva però alcun filone organico di medicina medioevale.
Le idee circa le origini delle malattie e le cure erano basate
su una visione della vita in cui il destino, il peccato
e le influenze astrali, giocavano un grande ruolo.
Le cure furono costituite, quindi, in larga parte
da incantesimi e pratiche simili alla stregoneria.
Le medicine per le malattie meno gravi erano a base di erbe,
che venivano raccolte in periodi ben definiti
durante i quali si credeva che le stelle ed i pianeti
si trovassero in posizioni particolarmente favorevoli.
Per maggior sicurezza, i raccoglitori borbottavano formule magiche come questa:
“Santa dea Terra, madre della natura, Grande Madre vieni a me
con i tuoi poteri guaritori e concedimi il successo in tutto ciò
che io farò con queste erbe e piante. Ti supplico
che i tuoi doni possano rendere sani coloro che le prendono”.
I primi ospedali si formarono fornendo assistenza e rifugio ai vecchi,
agli invalidi e ai pellegrini itineranti; sorsero, infatti,
come ospizi per persone non abbienti, più che come luoghi di cura.
Invece di invocare gli dei pagani, veniva chiesto il supporto dei santi patroni.
Gli ospedali più sviluppati comprendevano un albergo per viaggiatori e studenti
indigenti, dispensari per i poveri, cliniche ed ambulatori per i feriti,
sedi per i ciechi, gli anziani, gli orfani, i malati mentali,
e lebbrosari per la gente di tutte le età e di tutte le classi sociali.
Il termine hospitalitas era sì noto agli antichi,
ma solo come attitudine individuale o come obbligo nei confronti dell'ospite:
solo con l'avvento del Cristianesimo cominciò ad essere considerato
come un servizio reso al bisognoso.
Non doveva però mai mancare l'immagine del Signore, in quanto gli ospedali
erano considerati dei luoghi dove ci doveva essere
la presenza guaritrice dello Spirito Santo.
Gli ospedali si diffusero quindi, perché "l'amore di Dio”,
la pietà per l'umanità e la preoccupazione per il proprio benessere,
consigliarono e favorirono tali costruzioni.
Col tempo (prevalentemente dal XII secolo), le case
adiacenti ad alcuni monasteri si trasformarono, da ripari per i poveri
(xenodochia), .(dal greco xenos = ospite straniero;
e dokeion = ospizio).in luoghi ove erano disponibili medici esperti
Ogni monastero aveva un'infermeria con trattamenti prevalentemente erboristici.
Quasi una metà degli ospedali costruiti, era direttamente
affiliata con monasteri, priorati e chiese.
Molti ospedali, ad imitazione delle Comunità religiose, avevano formulato
precise regole di comportamento, uniformato il vestire
ed integrato i servizi nella loro procedura quotidiana.
Adottare un modello religioso era non soltanto la tradizione dei tempi,
ma era esso stesso un dispositivo terapeutico.
Con la preghiera, i pazienti erano invogliati ad aiutarsi
e ad aiutare i loro parenti ed amici e la gente in generale.
Se nell'Alto Medioevo l'ospedale era soprattutto uno xenodochio
nel Basso Medioevo divenne un ospedale nel senso più moderno,
ovvero, esso continuò a svolgere un'azione prevalentemente di riparo,
ma sempre più indirizzata a malati, vecchi e bambini;
nacquero brefotrofi (dal greco brefos = "neonato" e trefo = "nutrire"),
orfanotrofi (dal greco orfanos = "privo di")
e gerontocomi (dal greco geron = "vecchio").
Nell'Occidente latino medievale, almeno fino al 1280,non esistono
casi di apprendistato o di insegnamento medico in ambito ospedaliero;
gli ospedali, quindi, furono dotati molto lentamente di medici.
«I dottori non forniscono nessun aiuto concreto soprattutto perché
sono terrorizzati di visitare il malato», scrisse Guy de Chauliac,
nel XIV secolo, ma questo concetto era ben radicato nella popolazione.
Molti medici del tempo pensavano che la malattia fosse il risultato
di un miasma venefico; per neutralizzarlo gettavano sul fuoco
polveri aromatiche e accendevano candele.
Tenevano spesso sul naso un’arancia secca ripiena d’erbe
e spesso facevano sostare i loro pazienti nelle cloache,
pensando che l’odore nauseabondo degli escrementi
facesse fuggire il morbo.
Solo i ricchi, però, potevano permettersi la presenza di un dottore,
ammesso che si potesse usare questo termine per i "medici" di quest'epoca,
considerato che un medico portoghese, Arnoldo da Villanova che,
nel XIII secolo era considerato una grande celebrità,
consigliere del re d'Aragona, del papa e del re di Sicilia,
riteneva che bastasse un amuleto per far guarire dalle malattie.
«Questo prezioso amuleto reca sollievo ai sofferenti
di infiammazione celebrale, ai maniaci, ai malati di angina;
salva dai reumatismi e dalle malattie della testa e degli occhi»…
Parole di Arnoldo da Villanova !
Ma non era il solo, secondo altri, ad esempio,
un mezzo sicuro per evitare la peste consisteva nell'indossare
«una cintura di pelle di leone, con una borchia d'oro puro, sulla quale
fosse incisa l'effige dell'animale feroce…».
Chi non poteva ricorrere alle cure di un medico, si rivolgeva alle 'donne d'erbe'
che preparavano pozioni e infusi, oppure si chiamavano i guaritori ambulanti
o ciarlatani (nome che deriva da ciarla, cioè chiacchiera e cerretano,
ovvero Cerreto, località umbra da cui provenivano vari guaritori girovaghi).
Detto questo non occorre altro per far capire
a che punto si trovasse la medicina nel Medioevo.
In numerose fonti agiografiche, da Gregorio di Torso fino al basso Medioevo,
viene messa in evidenza l’inutilità della medicina.
Non poche volte lo sforzo del medico per guarire la gente da malattie
veniva preso come il tentativo audace e addirittura peccaminoso
dell’uomo di volersi immischiare negli impenetrabili piani di Dio.
Ammalarsi nel Medioevo non era certamente augurabile;
la vita media di una persona si aggirava sui 40 anni, chi riusciva a superarli
poteva ritenersi fortunato, perché le malattie, gli avvelenamenti
o gli incidenti erano tali, da non far superare questa età.
I bambini poi erano i più delicati; uno su tre moriva prima di aver compiuto i 5 anni
e la salute della donna era messa a dura prova dalle molteplici gravidanze,
visto che una donna allora, partoriva mediamente,
durante la sua vita fertile, ogni 18-20 mesi circa .
Inoltre la denutrizione rendeva le persone
facili preda delle malattie e
le carestie alimentari preparavano il terreno alle epidemie.
In questi secoli le popolazioni furono afflitte da numerose malattie,
tra il XII ed il XIII secolo la lebbra ebbe la sua massima espansione;
nel XIV secolo comparve in Europa la peste con il suo carico di morti,
anche se contemporaneamente scomparve quasi la lebbra
(grazie verosimilmente ai miglioramenti nell'alimentazione).
Nacquero lebbrosari e lazzaretti.
Ma, mentre il lebbrosario era una struttura per cronici, inguaribili,
strutturata come una piccola città, nata per isolare, non per guarire,
il lazzaretto nacque per gli ammalati a pericolosità altissima,
ma con la possibilità di recupero.
Con il lazzaretto inizia la storia dell'ospedale moderno,
fermo restando il paradosso per cui negli ospedali
esercitavano pochi medici e le università erano prive di malati,
in quanto la visita medica si volgeva principalmente in casa del malato.
Sebbene la medicina e la chirurgia fossero anche allora
strettamente collegate, i medici medioevali tenevano
una netta distinzione fra di esse.
Generalmente i medici trattavano i problemi interni al corpo
e i chirurghi quelli esterni quali: ferite, fratture, lussazioni,
problemi urinari, amputazioni, malattie della pelle e sifilide.
Essi praticavano i salassi ai pazienti inviati loro dai medici
e si occupavano di estrazioni dentarie, osteologia, oculistica ed ostetricia.
Praticata quale extrema ratio, la chirurgia poteva essere solutore
in casi di cancro mammario, fistole, emorroidi, cancrena, cataratta.
La forma più comune di chirurgia era il prelievo del sangue,
considerato quale rimedio per ristabilire l’equilibrio tra i fluidi del corpo.
All’epoca si era in grado di arrestare un’emorragia con i legacci,
operare e contenere in bende un’ernia, ricucire le estremità dei nervi recisi
e operare l’idrocefalo infantile, praticando una piccola apertura nel cranio.
L'anestesia e determinati strumenti chirurgici sono un'eredità di quest'epoca;
allora, per addormentare un paziente, si imbeveva una spugna
con l'anestetico prescelto ( che poteva essere belladonna, oppio,
succo di cicuta, mandràgora o giusquìamo, lattuga, cistifellea
di cinghiale castrato, brionia) e lo si premeva sul viso del paziente.
Alcune pozioni utilizzate per ridurre il dolore o indurre il sonno
durante gli interventi chirurgici, erano essi stessi potenzialmente letali
e purtroppo capitava anche di non dosare bene l'anestesia
con il conseguente mancato risveglio dall'operazione.
Fino al 1270 non veniva usato il bisturi ma il ferro rovente introdotto dagli arabi.
E' in questo periodo, infatti che compaiono i primi strumenti chirurgici.
Si sono trovate descrizioni di oltre 200 sonde, bisturi, forbici, pinze, cauteri e cateteri.
Alla chirurgia, i medici si rivolgevano quando i consigli per una vita sana
e le cure usuali non avevano avuto un riscontro positivo.
Per stimolare una prevenzione più attiva nacque il regimina, un manuale dove
erano annotati consigli su come condurre una vita sana mangiando con moderazione,
dormendo regolarmente e dominando gli eccessi comportamentali.
Disprezzati per il contatto eccessivamente intimo con il corpo umano,
posti sullo stesso piano dei macellai e dei carnefici,
tacciati di essere degli omicidi ingannatori, i chirurghi furono a lungo
considerati medici inferiori, guardati con sospetto
sia da una Chiesa che considerava la chirurgia una pratica abominevole
in contrasto con il credo cristiano, sia dai loro stessi colleghi medici.
Alcuni interventi chirurgici venivano poi delegati al barbiere,
il quale non si limitava ad operare in un ambito prettamente estetico,
ma si dedicava a vere e proprie operazioni come ad esempio
l'estrazione dei denti, i salassi, la cura degli ascessi.
Henry de Mondeville, il grande chirurgo francese medico di Filippo il Bello,
riteneva i barbieri: «chirurghi orgogliosi e illetterati, stupidi
e completamente ignoranti», insomma dei veri e propri
concorrenti dei medici capaci di condividere
con questi ultimi sì la pratica, ma non certamente il sapere teorico.
La figura del barbiere, così come quella del chirurgo, era poi accomunata
a quella del fabbro del quale condivideva determinate conoscenze specifiche
del settore artigianale; una testimonianza risalente al XV secolo
riferisce che ad un candidato barbiere fu chiesto
di forgiare delle punte di lancia utili in caso di salasso.
Le operazioni delegate ai barbieri erano sicuramente quelle più umili
e a più diretto contatto con il sangue che, se da una parte
poteva essere considerato oggetto di culto rappresentando il sangue di Cristo,
dall'altra era disprezzato e anzi ritenuto pericoloso e velenoso,
tanto che la legge imponeva di gettarlo via immediatamente dopo gli interventi.
Man mano che la popolazione nelle città medievali
aumentava, le condizioni igieniche peggioravano,
la conoscenza medica era limitata e, nonostante gli sforzi
degli addetti medici pubblici e delle istituzioni e regole religiose,
l’Europa medievale non aveva un adeguato sistema sanitario pubblico.
Il sapone, pressoché sconosciuto ai Romani, sembra essere stata
una invenzione gallica e divenne di uso diffuso nel corso del secolo IX.
Inizialmente era liquido e divenne più simile all’attuale nel corso del XII secolo.
Forse furono gli Arabi che lo svilupparono e, in un primo momento,
era formato da olio di oliva (al-Qali) e talvolta natron (sodio carbonato).
In seguito venne preparato con olio di oliva profumato alle erbe,
assieme a grasso di animale, cenere e soda.
I molti miti e le molte superstizioni riguardanti la salute
e l’igiene giocavano un ruolo importante.
La gente credeva, per esempio, che le malattie fossero diffuse dagli odori cattivi.
Era anche assodato che il corpo fosse il risultato dei difetti dell’anima.
Molti cercavano il rimedio dalle loro malattie con la meditazione,
la preghiera, i pellegrinaggi ed altri metodi non medici.
Il corpo umano era visto quale parte dell’universo,
un concetto derivato dai Greci e dai Romani e la teoria
dei quattro umori di Galeno era sempre di basilare importanza.
Questa derivava dalle opere di antichi medici e dominò
tutta la medicina occidentale fino al XIX secolo.
La teoria sosteneva che in ogni uomo si trovassero quattro "umori" o fluidi principali:
bile nera, bile gialla, flegma e sangue, prodotti da vari organi del corpo.
Secondo tale dottrina una persona, per essere in buona salute,
doveva avere un perfetto equilibrio di questi elementi:
per esempio troppo flegma nel corpo causava problemi ai polmoni,
il corpo tossiva e cercava di buttar fuori il flegma per ristabilire l'equilibrio.
L'equilibrio degli umori negli esseri umani poteva essere raggiunto
con la dieta, le medicine e il salasso con le sanguisughe.
Ciascun umore poi aveva due proprietà che erano umido,
caldo, secco e freddo; per esempio il sangue era caldo e umido.
L'umore era anche legato però a una fase della vita, come la vecchiaia
o la giovinezza, e alle le quattro stagioni:
bile nera - autunno, bile gialla - estate, flegma- inverno, sangue - primavera.
e al temperamento tanto che ancora adesso, alcuni usano
le parole "collerico", "sanguigno","flemmatico" e "malinconico"
per descrivere determinate personalità.
L'uso delle erbe si incastrava perfettamente in questo sistema, per cui
il successo dei rimedi con le erbe era ascritto alla loro azione sugli umori del corpo.
L'erboristeria attinse anche alla signatura rerum, letteralmente "firma delle cose"
cristiano-medievale, che affermava che Dio avesse fornito una qualche forma di riduzione
per ogni male e che queste cose fossero di origine animale,
vegetale o minerale e riportavano un marchio o una firma su di loro
che davano un'indicazione della loro utilità.
Ad esempio, i semi della scutellaria (usati come rimedio contro il mal di testa)
potevano apparire come teschi in miniatura
e le foglie bianche a macchie di polmonaria
(utilizzate per la tubercolosi) assomigliavano ai polmoni di un paziente malato.
Si riteneva esistere un gran numero di tali somiglianze.
La maggior parte dei monasteri coltivavano nei loro orti erbe per produrre cure
e queste sono rimaste una parte della medicina popolare, oltre ad essere utilizzate
da alcuni medici professionisti.
Sono stati anche prodotti libri di rimedi a base di erbe, uno dei più famosi
è il gallese Red Book of Hergest, databile attorno al 1400.
Tenendo conto dei rimedi che venivano dispensati, si può però dedurre
che gli avvelenamenti da cibo, i morsi dei serpenti e le punture di insetti
fossero molto comuni; le farmacie avevano una gamma molto varia di antidoti
a cui se ne aggiunsero altri dal momento in cui si fece la traduzione dei testi arabi.
Durante questo periodo la medicina iniziò comunque ad essere riconosciuta
quale professione, sulla base di una formale istruzione,
un curriculum standardizzato e leggi riconosciute,
tanto che in alcune regioni, i medici erano tenuti
a superare esami prima di iniziare la pratica.
I medici non addestrati erano destinati a sanzioni e multe,
cosicché la licenza di stato divenne procedura comunemente diffusa.
Le donne-medico trattavano comunemente pazienti femminili
ed i medici non istruiti o autodidatti o ”sanguisughe”, sebbene derisi
dai medici istruiti, erano lasciati lavorare sia sull’uomo sia sugli animali.
L’assistenza medica era molto costosa e solo pochi potevano permettersela.
Di conseguenza la pratica medica formale veniva praticata dalla Chiesa
che correlava la malattia con la ricompensa divina.
I malati e gli anziani potevano essere curati da medici esperti, monaci,
guaritori popolari (spesso donne, specie nelle aree rurali),
in relazione alla classe socio-economica del paziente.
A causa della insicurezza della medicina accademica,
molte volte il paziente medioevale si rivolgeva a certi incantamenti,
specialmente preghiere o specifici rituali Cristiani.
Fra le manifestazioni di panico e fanatismo provocate dalla peste
quella dei flagellanti fu una delle più impressionanti.
Turbe di penitenti composte anche da centinaia di uomini
(le donne erano rigorosamente escluse)
vagarono nel 1348/49 da una città all'altra della Germania;
una volta raggiunta la loro tappa si flagellavano pubblicamente
con fruste munite di punte metalliche.
Grandi folle venivano ad assistere a quest'autopunizione, che aveva lo scopo
di allontanare dal mondo l'ira divina.
Per trentatré giorni e mezzo (quanti tradizionalmente si pensava
fossero stati gli anni di Gesù) i flagellanti
ripetevano il loro rituale nei luoghi incontrati durante l'itinerario.
Secondo il medico bolognese Tommaso Del Garbo (testimone oculare
dell'epidemia del 1348), il primo e più sicuro rimedio per salvarsi dall'epidemia,
era quello di fuggire dal luogo in cui infestava la pestilenza e recarsi
in un luogo dove l'aria "fosse più sana".
A coloro che rimanevano in città, soprattutto preti, medici e notai,
veniva consigliato prima di entrare in camera del malato
di aprire porte e finestre in modo da far cambiare l'aria.
«è 'l lor alito velenoso, per mezzo del quale l' aria della camera diventa putrida e infetta».
Inoltre veniva loro consigliato di lavarsi le mani, il naso, la faccia e la bocca con aceto
ed acqua rosata e tenere in bocca due granelli di garofano.
Non bisognava avvicinarsi all'ammalato per evitare il contagio.
Furono introdotte delle pillole contro la pestilenza:
«La ricetta di esse pillole è questa, cioè brettonica e propinella,
di ciascuna oncia mezza, poi camedrios ancia una, e tritinsi
minutissimamente come polvere che si usa nel male degli occhi.
Poi ricette mirra eletta oncie due, aloepatico oncia una e mezza,
croci, broli armetrici, di ciascuno drama mezza.
E queste due cose si crivellino e espolverezzandosi e con acqua di vita
e buglioso, nella quale stiamo uno dì e una notte disolute,
le polvere delle dette erbe si colano e faccinsi pillole».
Queste dovevano proteggere l'uomo da febbri e da malattie di cuore;
venivano prese prima e dopo i pasti, ma si consigliava di ingerirle
al mattino appena svegli e alla sera prima di coricarsi.
Poiché la maggior parte della popolazione dell’Europa medievale
non viveva nelle città dove avrebbe potuto giovarsi di medici colti
e non superstiziosi, più spesso che non, essi si rivolgevano
ai guaritori locali che erano solitamente infermiere, casalinghe
o semplici esperti di rimedi erboristici.
Non era infrequente il credere in guarigioni miracolose.
Per tale motivo, molti ammalati iniziarono pellegrinaggi
nella speranza di guarire, riappacificandosi con Dio.
Ciò non fermò i monaci, che erano i più acculturati,
dall’applicare ciò che avevano imparato copiando i testi antichi.
Ogni monastero aveva un' infermeria dove i rimedi esistenti
si basavano sulle erbe, coltivate nei loro giardini, secondo gli insegnamenti ippocratici.
.
Le cure a quei tempi erano principalmente basate su preparati di erboristeria,
in associazione con diete che specificavano il tipo ed il quantitativo di cibo
(possibilmente in unisono con i principi degli umori) e con l’esercizio fisico.
Solitamente nei casi più gravi o più avanzati, poteva aver luogo
un trattamento chirurgico che includeva, ma non solo,
pratiche di salasso, amputazioni o manipolazione ossea.
Simili rimedi erano resi ancor più stravaganti dall’ignoranza totale
delle cause dei malesseri.
Per il mal di denti, ad esempio, si usava questo sgradevole sistema di cura:
“Prendi una candela di grasso di montone mischiato a semi di agrifoglio;
fai bruciare la candela il più vicino possibile al dente,
tenendo sotto il mento una bacinella piena d’acqua fredda.
I vermi che stanno rosicchiando il dente cadranno nell’acqua
per sfuggire al calore della candela”.
Per il mal di testa si usava un infuso di radici di peonie
mischiate a olio di rose, con cui si bagnava la parte dolorante.
La teriaca (o triaca): composto medicamentoso, sotto forma di pasta,
usato ufficialmente per curare i morsi degli animali e per i dolori di stomaco,
si preparava solo dietro permesso dei medici .
La scrupolosità con cui la sua preparazione era condotta, l'accurata registrazione
di ogni dose preparata su appositi registri, la verifica da parte del medico
della liceità nei procedimenti e la presenza del medico nella polverizzazione degli ingredienti,
solitamente eseguita all'aperto, ci fa capire l'importanza e forse la pericolosità del preparato.
In alcune cronache del '500, giunte a noi, si descrive la preparazione della teriaca
nei giardini dei conventi o delle Università: la forma era solenne,
con il pubblico che poteva assistere e medici e farmacisti all'opera.
Una volta preparata, la preziosa pozione veniva posta in vasi di maiolica.
L’elemento più curioso della preparazione sono i Trocisci di vipera,
vale a dire carne di vipera dei Colli Euganei, femmina, non gravida,
catturata qualche settimana dopo il letargo invernale, privata della testa,
della coda e dei visceri, bollita in acqua di fonte salata ed aromatizzata con aneto,
triturata, impastata con pane secco ,lavorata in forme tondeggianti
della dimensione di una noce e posta ad essiccare all’ombra.
Altro componente fondamentale era l’Oppio, che doveva provenire rigorosamente
da Tebe,in quanto di qualità superiore rispetto a quello Turco.
Altri ingredienti erano l’asfalto, il benzoino, la mirra, la cannella, il croco,
il solfato di ferro, la radice di genziana, il mastice, la gomma arabica, il fungo del larice,
l’incenso, la scilla, il castoro, il rabarbaro, la calcite, la trementina,
il carpobalsamo, il malabatro, la terra di Lemno, l’opobalsamo, la valeriana et alia.
La preparazione, per raggiungere il massimo dell’efficacia, doveva “maturare”
per almeno sei anni ed era considerata valida fino al 36 anno.
La teriaca era il rimedio sovrano per un’infinità di malattie che spaziavano
dalle coliche addominali alle febbri maligne, dall’emicrania all’insonnia,
dall’angina ai morsi delle vipere e dei cani, dall’ipoacusia alla tosse.
Veniva utilizzata per frenare la pazzia e per risvegliare gli appetiti sessuali, per ridare
vigore ad un corpo indebolito, nonché per preservare dalla lebbra e dalla peste.
Le modalità di somministrazione ed il dosaggio variavano a seconda della malattia,
dell’età e del grado di debilitazione del paziente.
Si assumeva stemperata nel vino, nel miele, nell’acqua o avvolta in foglia d’oro,
in quantità variabile da una dramma (1,25 g circa) a mezza dramma,
ma la conditio sine qua non affinché la teriaca fosse efficace era che doveva essere assunta
dopo aver purgato il corpo, altrimenti il rimedio sarebbe stato peggiore del male.
Per i trattamenti con la Teriaca il periodo più favorevole era
l’inverno, seguito dall’autunno e dalla primavera.
Da evitare, a meno di una situazione particolarmente grave, l’estate.
Con il trascorrere dei secoli l’interesse per questo polifarmaco a poco a poco scemò,
e nonostante non lo si utilizzasse più, a fine Ottocento lo si trovava ancora iscritto
nelle farmacopee di numerosi paesi, compreso il nostro, tanto che fino al 1850
lo si preparava ancora a Venezia e a Napoli e venne prodotto fino al 1906.
È stata questa, almeno per sette secoli, la panacea per molte malattie e infermità.
Un mistero alchemico?
Secondo certi storici, erano stati i Templari, che praticavano le arti alchimistiche,
a detenere la ricetta di questa mistura.
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