Tra predisposizione e degenerazione. La criminalizzazione del disagio mentale dei militari alla vigilia della Grande Guerra
Di Fabio Milazzo
Introduzione
La questione del rapporto tra crimine, follia e vita militare emerge come problema durante la seconda metà dell’Ottocento1. Non che precedentemente non fossero accaduti casi di follia militare, o episodi di criminalità commessi da soldati, ma essi non avevano assunto il valore di “questione”, così come avverrà in seguito. In particolare ciò che contraddistingue la situazione italiana è la sempre più marcata psichiatrizzazione degli episodi di criminalità commessi da militari e questo determina, tanto sul piano delle politiche mediche, che su quello delle strategie di controllo della devianza, il saldarsi e a tratti il sovrapporsi degli ambiti della delinquenza e della follia. Ciò avviene in concomitanza di un altro fenomeno più generale che i medici del XIX° secolo cercano di comprendere e di inquadrare in coordinate teoriche appropriate: l’emergere dei primi casi di «isteria-traumatica». I soggetti che sempre più numerosi si presentano negli studi medici alla “fin de siècle” lamentano diversi sintomi afferenti alla sfera psichica: condizioni depressive, affaticamento, mal di testa, mal di schiena, disturbi del sonno, tra cui insonnia e incubi, fobie, disturbi motori e sensoriali delle estremità. Una parte di questi individui sono soldati coinvolti in episodi bellici, frastornati per la violenza dei combattimenti o colpiti dalla morte di un commilitone. La particolarità dei disagi mentali evidenziati da questi soggetti, per i canoni medici dell’epoca, è conferita dall’assenza di lesioni organiche evidenti. Come definire allora questi sintomi? E gli individui che ne sono coinvolti? Sono dei “malati immaginari” o delle vittime di patologie inedite, magari legate alle trasformazioni della società industriale? Un altro elemento che colpisce l’attenzione dei medici è che i sintomi, sovente, spariscono in breve tempo, in altre circostanze invece persistono nel tempo, diventando cronici, senza che ci sia un’evidente logica di fondo. Altro elemento che accomuna i soggetti sofferenti – operai, artigiani, soldati – è che all’origine del disagio appare esserci una “forte emozione”, spesso uno spavento, causato da un evento specifico in cui i soggetti sono in qualche modo coinvolti: un incidente in fabbrica, il deragliamento di un treno, lo scontro tra due mezzi, lo scoppio di una granata in un conflitto, un evento tragico e inatteso come un lutto, un trasferimento o una separazione. Il contesto è quello della società in rapida trasformazione a seguito della seconda rivoluzione industriale.
E’ in questo orizzonte che si staglia la celebre figura di Jean Martin Charcot che, intorno al 1880, individua nell’incapacità del soggetto di liberarsi dall’idea fissa legata al trauma, l’effetto più evidente causato da questo genere di “ferite dell’anima” prodotte nell’orizzonte della società industriale di massa2. Charcot, almeno dalla metà degli anni settanta dell’Ottocento, lavora ad un quadro diagnostico in grado di rendere conto della molteplicità dispersa dei sintomi riscontrabili a seguito di un evento traumatico. In particolare, attraverso l’ipnosi, l’osservazione e l’analisi clinica, giunge alla configurazione di una categoria, quella di “isteria traumatica”, responsabile della “paralisi istero-traumatica, ossia la paralisi che insorge dopo un incidente in persone con una disposizione isterica”3. Eppure la condizione isterica è quasi unanimemente ritenuta una costellazione patologica femminile, come spiegare invece l’alto numero di uomini che presentano i sintomi pseudo-isterici? Come interpretare i casi di militari, alcuni pazienti proprio di Charcot, perseguitati dalle idee fisse di origine bellica? L’idea che si fa strada è che lo stato di dissociazione e l’alterazione della coscienza riscontrati sono alcune delle conseguenze dello “shock nervoso”. Questo causa nei soggetti con predisposizione isterica una riconfigurazione della personalità ancorandola a delle idee patogene [“idee fisse”] che l’individuo non riesce ad allontanare. E’ il caso di alcuni militari che destano l’interesse del celebre medico francese; in particolare uno, impegnato nella guerra franco-prussiana e durante le fasi della Comune di Parigi, a distanza di tempo continua ad essere perseguitato da idee intrusive, legate ai conflitti in cui è stato coinvolto, che ne pregiudicano l’autonomia psico-fisica4.
In Italia tutto ciò ha deboli effetti sulla considerazione medico-sociale verso i militari alienati. Molti di essi presentano sintomi simili a quelli studiati da Charcot, eppure ciò non determina l’emergere di un problema medico-politico. Le ragioni sono diverse, la principale è che i soldati, una volta evidenziati disturbi mentali persistenti, vengono internati nel manicomio più vicino alla caserma e, successivamente, eventualmente inviati in quello pertinente territorialmente in base al luogo di nascita. Non sono dunque i medici militari a diagnosticare loro il tipo di patologia sofferta, né sono loro a seguire il decorso della malattia. I soldati, una volta inviati in manicomio, vengono trattati come gli altri internati e ciò contribuisce alla scarsa attenzione che la psichiatria ha rivolto verso la categoria dei “militari”, almeno fino alla Grande Guerra. L’attenzione, invece, è stata maggiore sul piano del nesso crimine-follia, in linea con un paradigma psichiatrico che ha criminalizzato la patologia mentale, di fatto stabilendo le coordinate clinico-teoriche attraverso cui sono stati riconosciuti questi “soggetti anormali”. Simulatore, impostore o degenerato, il soldato alienato è dunque innanzitutto un criminale identificato attraverso tassonomie che danno corpo all’anomalia e alla pericolosità sociale. E in tale luce viene osservato, studiato, trattato, da uno sguardo scientifico che implicitamente riconosce innanzitutto il carattere di pericolosità sociale. Una pericolosità che deve essere controllata, isolata, resa inoffensiva e, soltanto in tale prospettiva eventualmente “curata”.
Le contraddizioni che animano i saperi, i concetti e le pratiche attraverso cui viene trattata la follia dei militari emergono concretamente dalle storie dei militari internati. In particolare, uno degli elementi centrali di queste vicende, è rappresentata dalla difficoltà, incontrata da medici militari e alienisti, di inquadrare diagnosticamente i sintomi presentati dai soldati e quindi discernere tra i casi di follia e quelli di simulazione. E’ in tale ottica che abbiamo analizzato, tra le tante possibili, una vicenda specifica che ha interessato un militare internato presso il manicomio provinciale di Cuneo, in Racconigi. Lo spoglio sistematico della documentazione psichiatrica, del diario clinico e delle lettere presenti nella cartella clinica porta alla luce una storia in cui valutazioni diagnostiche, criminalizzazione del disagio, limitazioni della libertà, vissuti di sofferenza e ruolo delle famiglie, si intrecciano e si aggrovigliano evidenziando quanto le teorizzazioni implicite e le nosografie psichiatriche abbiano influito sulle forme di trattamento del disagio mentale. Lo studio di caso fa parte di un progetto di ricerca più ampio, tuttora in corso, che partendo proprio dal prisma di osservazione cuneese analizza le vicende dei militari alienati durante la Grande Guerra, le categorie attraverso cui si è data forma al loro disagio e le dinamiche manicomiali in cui queste vicende sono immerse. Il caso è preceduto da una breve introduzione sulla questione.
Criminalizzare il disagio mentale dei soldati.
In Italia, tra Otto e Novecento, è la “psichiatria criminale” la tassonomia d’elezione per affrontare la questione delle malattie nervose nei militari. Ciò deriva dall’affermazione del paradigma della “medicina sociale”5, quello che tratta la questione degli alienati militari alla luce appunto della psichiatria criminale e dell’antropologia della devianza di derivazione lombrosiana. Questa è anche una delle ragioni del disinteresse sul piano medico delle autorità militari per il problema e, quindi, del mancato sviluppo dei servizi psichiatrici nell’esercito. Infatti, quest’ultimo, ancora negli anni immediatamente precedenti al Primo Conflitto Mondiale, non esisteva, se non nella forma di isolati spazi di osservazione, spesso in ambienti promiscui, nei diversi presidi ospedalieri militari. La realtà era diversa per la Regia Marina che, dalla guerra di Libia, si era mossa attrezzando l’ospedale di La Spezia con apposite sale per il ricovero e l’osservazione del personale alienato. Le ragioni di tale ritardo sono molteplici e interessano, più in generale, l’evoluzione della psichiatria militare in Italia, un campo studi di fatto non sviluppatosi e lasciato alla pratica di medici militari, quasi sempre, senza alcuna formazione specifica. Ciò deriva anche dal rapido affermarsi del paradigma criminologico di derivazione lombrosiana, che ha contribuito a determinare uno sviluppo incerto dell’alienismo militare italiano, più orientato verso il controllo disciplinare dell’anormalità, che sulla diagnosi e la cura del disagio mentale dei soldati. Sulla situazione ha pesato inoltre la storia della psichiatria italiana che, soprattutto tra Otto e Novecento, si schiaccia intorno alla funzione reclusiva svolta dall’istituzione manicomiale, sancita dalla tanto attesa legge Giolitti sull’assistenza degli alienati del 19046. La psichiatria diventa così sempre più scienza della diagnostica e della correzione dell’anormalità mentale7, in un contesto che vede molti alienisti lottare per ottenere il riconoscimento sociale di medici uguali agli altri, di fatto loro negato, a causa di una scienza da molti ritenuta priva di quelle prerogative di chiarezza e certezza che sanciscono la differenza principale tra i saperi certi e gli altri generi discorsivi. In tale ottica il vertiginoso aumento degli internati in manicomio, il fallimento delle politiche di trattamento della malattia mentale, le difficoltà di presentare soluzioni mediche che non siano semplici espedienti attraverso i quali espellere il problema “follia” dalla comunità, sono tutti elementi che concorrono alle difficoltà della psichiatria e che, per molti versi, la indirizzano verso terapeutiche energiche e sbrigative, le uniche in grado di offrire l’illusione di poter in qualche modo “curare” – e quindi gestire – il problema.
La storia dell’interpretazione e del trattamento del disagio mentale nei militari conosce un momento di svolta in concomitanza di alcuni celebri e tragici casi che scuotono l’opinione pubblica italiana a fine Ottocento. Si tratta di vicende che vedono coinvolti soldati che, durante il periodo di leva, dunque una volta accertata la loro idoneità psico-fisica al servizio militare, in seguito a diverbi di caserma o a futili motivi, “danno di matto” imbracciando le armi e compiendo stragi di commilitoni e superiori. I più celebri sono i casi di Pietro Radice e di Salvatore Misdea. E soprattutto a seguito del «caso Misdea» ottiene sempre più credito l’utilizzo di categorie derivate dall’antropologia criminale per spiegare gli scoppi improvvisi e violenti di questi soldati8. Follia morale e delinquenza si saldano così in una interpretazione che vede confluire discorso psichiatrico e teorie come l’atavismo di derivazione lombrosiana e il “degenerazionismo” di Bénédict Augustin Morel (1809-1873) 9. Il risultato è da una parte la psichiatrizzazione sempre più marcata della criminalità10, dall’altra il riconoscimento del bisogno di un metodo in grado «di poter scoprire simili patologie»11, soprattutto nei soggetti apparentemente normali, come i soldati protagonisti degli eccidi, e dunque impedire il ripetersi di simili stragi. Per le autorità militari la priorità diventa quella di migliorare i filtri durante le visite di leva, e l’opera di monitoraggio in caserma, per individuare potenziali delinquenti e alienati. Proprio l’individuazione dei soggetti degenerati, “anche se questi fossero passati per la trafila dell’osservazione”12 durante la visita di leva, non è semplice “perché il rilievo di certe anomalie della mente e delle minime aberrazioni morali, si sottrae sovente ad ogni indagine, né si può effettuare sempre con i reattivi mentali e morali che si possono avere a disposizione”13.
Ciò poneva dei problemi non indifferenti alle autorità militari, ma anche alla psichiatria che, ancora allo scoppio del conflitto, non presentava risorse, mezzi e competenze adeguate alla natura del fenomeno, fino ad allora sottovalutato e, comunque, gestito in un regime di autonomia autistica tra i diversi settori dell’amministrazione statale. I pochi alienisti che si erano interessati del fenomeno degli alienati militari erano perlopiù dei positivisti di formazione, che avevano maturato la convinzione secondo cui le teorie lombrosiane rappresentavano il punto di partenza necessario per qualunque strategia volta a liberare l’esercito dai “degenerati” che si annidavano tra le sue fila. Eppure, come notato già dai medici che si erano confrontati con i casi di “isteria traumatica” di fine Ottocento, distinguere tra quanti simulavano, per farsi riformare dal servizio militare e tornare a casa, e quanti erano effettivamente afflitti da disagio mentale, non era semplice. I paradigmi che si andarono affermando per spiegare le situazioni di disagio mentale tra i militari, la simulazione e la predisposizione, non presentavano espressioni univoche e potevano facilmente essere confusi. Entrambi, infatti, affondavano le loro radici in un orizzonte interpretativo legato alla criminalità e alla devianza. Infatti anche la predisposizione, che riconosceva il disagio mentale ma lo legava alla situazione familiare, portava alla luce un profondo senso di “disprezzo nei confronti del soldato che presentava disturbi nervosi e mentali. Si vedeva in lui […] l’anomalo, il debole, il primitivo”14, il soggetto inutile alla nazione alle sue esigenze. La diffidenza che le autorità militari provavano nei confronti tanto dei simulatori, quanto dei degenerati predisposti alla follia, era favorita dalla mancanza di chiari confini tra le due condizioni, così che nell’immaginario militare le due situazioni quasi si sovrapponevano e confondevano. D’altra parte bisogna dire che anche gli alienisti, posti di fronte ai casi ambigui, sovente dimostravano di non avere a disposizione tassonomie chiare e diagnosi certe, in grado di distinguere tra le diverse situazioni. Il risultato era quello di rafforzare ulteriormente la confusione di fondo, in un circolo vizioso che si autoalimentava e i cui effetti più evidenti si sarebbero visti durante la Grande Guerra, quando il disprezzo e la diffidenza verso i soldati affetti da disagio mentale avrebbe prodotto scetticismo, sospetti e denigrazione.
Quando è la stirpe ad essere alienata: il caso del soldato Antonio S.
La provincia di Cuneo è un territorio di caserme, un insieme disperso di avamposti militari chiamati a vigilare sul confine Occidentale dell’Italia Unita. Molti giovani italiani fanno la conoscenza di questo territorio di confine proprio nelle vesti di soldati di leva. Prima dello scoppio della guerra, nel 1914, a Cuneo ci sono 2.44915 militari. Come loro anche Antonio S., il protagonista della vicenda che analizziamo, deve trascorrere qui il proprio periodo di leva, finalmente ridotto a due anni, a seguito di una richiesta mai sopita da parte dell’opinione pubblica16. Nonostante la riduzione questo lasso di tempo viene vissuto come un ingiustificato sopruso dalla quasi totalità di italiani chiamati alle armi, tanto che in alcuni casi questo sentimento di ingiustizia e di rifiuto assume le forme di vero e proprio disagio mentale, così da determinare l’internamento in manicomio. Nel caso del territorio che fa capo a Cuneo, lo spoglio dei dati che si riferiscono al periodo precedente la guerra permette di stabilire in una media di 6-8 militari il contingente annualmente inviato in osservazione, per problemi mentali, presso il manicomio provinciale17. Nel 1913, l’anno della vicenda che interessa Antonio S., i soldati alienati furono 818, su un totale di 283 ingressi19. Il dato, non rilevante, deve essere contestualizzato tenendo conto che l’esercito non ha servizi psichiatrici adatti a tale scopo20 e, quindi, mancando un adeguato sistema di riconoscimento e valutazione delle malattie mentali, viene meno la possibilità di individuare nel comportamento anormale del soldato la radice patologica e quindi di trattarla di conseguenza. Questo a meno di evidenti segnali di alienazione mentale, di solito legati a “eccessi di natura furiosa” agiti nei confronti di sé o degli altri. In questo caso gli alienati militari, una volta ritenuti degni di ricovero, dopo il periodo d’osservazione, venivano inviati al manicomio della provincia di appartenenza. Le ragioni dei ricoveri sono diverse, tra queste pesa come fattore scatenante il disagio nei confronti della disciplina, della vita e delle restrizioni imposte dalla caserma e la distanza da casa.
Come detto i paradigmi interpretativi di riferimento nel caso del disagio mentale che colpiva i soldati erano la simulazione, la degenerazione e la predisposizione familiare. Soprattutto per i casi individuati come derivanti da una situazione parentale avversa, la prassi di valutazione e dimissione è spesso molto rapida, come nel caso del soldato Antonio S., entrato il 29 giugno 1913 e dimesso il 13 luglio 191321. Il militare viene condotto dapprima presso l’ospedale militare di Savigliano, e da qui inviato al manicomio provinciale, a causa di un “accesso confusionale” che lo ha colpito in caserma. Al momento del ricovero ha 20 anni, è celibe e risulta aver frequentato le scuole elementari. Non è mai stato ricoverato in manicomio22, è di buona costituzione e non rifiuta il cibo. Non si hanno notizie di problemi psichiatrici occorsi durante l’infanzia o l’adolescenza, ma una sorella è stata ricoverata in manicomio23 e ciò consente ai medici di inquadrare i sintomi alla luce del determinismo fisiologico familiare. Il riferimento a parenti ricoverati in manicomio consente l’applicazione delle rassicuranti categorie del “darwnismo sociale”, anche quando – come nel caso presente – il potenziale alienato sostiene di non avere sofferto “di malattie degne di menzione, che non è bevitore, non si è infettato di morbi venerei”24. E’ questo, forse, il tratto più evidente di un lombrosianesimo che, al prezzo di una rappresentazione semplificata degli studi dell’autore dell’Uomo delinquente, consente a medici, psichiatri e criminologi di spiegare la malattia mentale come espressione di quelle classi disagiate, e potenzialmente pericolose, che per struttura ontologica sono ritenute refrattarie ai doveri sociali, come il servizio militare. Antonio è il caso tipico di soldato che fa esperienza della malattia mentale in caserma. Proviene dal 33° reggimento fanteria di Cuneo e secondo le notizie fatte pervenire dalla caserma «ha sempre prestato lodevole servizio ed è sempre stato calmo e disciplinato»25. Solo recentemente, secondo il medico militare, “si mostra “agitato-taciturno, sfugge la compagnia dei commilitoni e di notte si alza e va in giro per le camerate borbottando frasi sconnesse. Piange e si lagna di forte cefalea”26. In manicomio i medici che lo visitano lo giudicano “aperto, simpatico”27. Non mostra neanche problemi d’orientamento nello spazio e la sfera intellettiva risulta essere “normale”28. Insomma, non presenta nessuna di quelle caratteristiche fisiognomiche o posturali in grado di farlo inquadrare nelle categorie subumane dei “delinquenti nati”. Secondo i medici il suo rifiuto della vita militare deve, allora, avere un’origine familiare, da qui il riferimento alla sorella ricoverata in manicomio. La stirpe è malata e ciò spiega l’ “accesso confusionale”29 in un soggetto che, per altri versi, è normale. Infatti durante il periodo di ricovero è tranquillo, “libero di turbe sensoriali”30, risponde alle “interrogazioni, non sa spiegarsi il motivo che l’ha condotto in manicomio”31. Riferisce di alterchi con i commilitoni e non sembra contento di trovarsi in manicomio, tanto che ritiene i superiori responsabili di aver affrettato il suo ricovero “memori dei precedenti familiari”32. La psicodegenerazione familiare, attraverso lo stigma dell’amoralità ereditaria, consente di includere nella categoria dei caratteri degenerativi anche i soggetti come Antonio che durante il ricovero si dimostra “tranquillo, rispettoso, buono, servizievole”33. Per questo, alla fine del periodo d’osservazione, viene ritenuto fragile, debole di carattere, segnato dalla traccia familiare ma, in definitiva, non di condizione tale da meritare il ricovero definitivo, dunque non è “da ritenersi di competenza manicomiale”34. Casi come questo, che non vengono considerati pericolosi per la collettività, sono gestiti cercando di rispedire quanto prima il soldato in caserma, sia per non gravare sulla precaria situazione manicomiale, sia per non favorire strategie che individuano nella struttura asilare il luogo per sfuggire alla leva. Si rafforza così, tra le autorità e la psichiatria militare, l’idea di una componente malata presente all’interno dell’esercito, un disvalore in grado di contaminare e, potenzialmente, far degenerare lo spirito della vecchia tradizione militare. Infatti, le trasformazioni in atto nell’esercito, con “l’immissione di borghesi in un’istituzione fino ad allora composta prevalentemente da aristocratici e proletari”35, se da un lato aprivano a nuovi valori una struttura tradizionalmente chiusa, dall’altra sollecitavano un controllo ancora maggiore sulla salvaguardia di uno spirito che, per non andare incontro alla degenerazione, doveva essere protetto dalle istanza più disgreganti. Tra queste, la principale, è quella costituita dai militari non-adatti alla vita da caserma, a tutti gli effetti dei non-valori36 in grado di contaminare e mettere in discussione i “pilastri fondanti del vecchio esercito: autorità, gerarchia e conservatorismo”37. Individuare l’elemento virale e debellarlo diviene allora l’imperativo necessario per evitare che il tentativo di apertura e di modernizzazione dell’esercito si trasformi in una sconfitta e, quindi, nel necessario ritorno a modelli chiusi non più all’altezza dei tempi.
Impedire ai soldati di sfuggire ai doveri verso la patria, scoraggiare i simulatori, correggere gli anormali, allontanare gli elementi infettanti il corpo vivo dell’esercito-Nazione, questi i compiti di una politica psichiatrica che, affermando il proprio ruolo sociale, si configura come baluardo della società contro l’elemento degenerante. In ordine a ciò i manicomi assumono sempre più la funzione di spazi correttivi entro i quali raddrizzare, nel più breve tempo possibile, il soldato-degenerato che deve essere restituiti ai suoi doveri. Il recupero del soldato-malato è dunque un processo che possiamo riscontrare già prima della Grande Guerra, in una fase contraddistinta dalla crisi attraversata dall’esercito tra Otto e Novecento. Come sostiene Lorenzo Benadusi:
«Il vento della modernità che soffiava nella società colpiva inevitabilmente anche le istituzioni militari e penetrava persino all’interno delle caserme. Adeguarsi al cambiamento, in questa delicata fase di transizione, significava trovare un difficile bilanciamento tra vecchio e nuovo, perché le moderne tecnologie belliche imponevano una riforma strutturale delle forze armate non solo nelle dotazioni militari. Ormai in Europa e negli Stati Uniti gli eserciti stavano diventando organismi sempre più articolati che richiedevano una gestione complessa di mezzi e uomini, nel caso dell’Italia poi il processo di cambiamento coincideva con il consolidamento ancora in corso del nuovo stato nazionale e con i vincoli imposti dagli accordi internazionali. L’introduzione della coscrizione obbligatoria aveva immesso nell’esercito una massa di coscritti da organizzare, disciplinare ed educare; migliaia di giovani in divisa la cui gestione comportava che anche in ambito militare si adottassero gli stessi criteri manageriali usati in ambito civile, con una inevitabile burocratizzazione del sistema, ma allo stesso tempo con una più attenta divisione del lavoro e un impiego più razionale delle risorse. Il processo di democratizzazione che trasformava il cittadino in soldato portava gioco forza a cercare un nuovo equilibrio tra professionalizzazione e coscrizione di massa».38
Si tratta di gestire l’innesto dell’esercito nella società civile postunitaria, transizione non facile che deve fare i conti con la presenza di diverse istanza presenti nell’ambito militare, ognuna con riferimenti e modelli politici e strategici diversi. Ma anche di controllare l’ingresso delle masse nel corpo, tradizionalmente chiuso, dell’esercito. In tal senso ha ragione Fulvio Cammarano quando sostiene che
“l’esercito divenne il primo serio problema con cui si misurò la classe dirigente italiana, un problema che emblematizzava i diversi nodi irrisolti del Risorgimento e in particolare il completamento dell’unificazione, l’omogeneizzazione politica ed amministrativa del Mezzogiorno e il ruolo del garibaldinismo e della democrazia all’interno del nuovo stato”
39.
Gestire la transizione del vecchio modello di esercito regionale – quale era quello sabaudo – ad una struttura nuova, aperta, in grado di confrontarsi con le altre potenze sullo scacchiere internazionale significa anche curare le forme e i modi dell’ingresso della borghesia in caserma. Ciò si traduce soprattutto in una complessa operazione di gestione della contaminazione tra i codici simbolici dell’universo borghese, quello contadino e quello delle forze armate. Ne deriva una ridefinizione più generale – e per molti versi traumatica – della grammatica che organizza l’universo simbolico dell’esercito e proprio in quest’ottica deve essere letta, e contestualizzata, la stretta sulla tenuta psichiatrica collettiva di una costellazione – appunto quella militare – adesso non più protetta dalla tradizionale vocazione isolazionista delle forze armate. Quando Placido Consiglio, nel 1911, affronta il problema dei soldati pazzi nei termini di “fermenti pericolosi di contagio”40 sta evidenziando proprio il punto di vista di chi teme per la tenuta dello spirito di corpo, minacciato nel suo elemento essenziale, vale a dire la configurazione psichica del corpo-militare.
Conclusione
Decodificare in ultima istanza i sintomi lamentati da Antonio S. non è possibile, si può invece ragionevolmente sostenere che gli attacchi convulsivi – genuini o meno – si inscrivono in un fenomeno più generale di rifiuto nei confronti della vita militare, che è possibile ipotizzare ha la sua origine proprio nella vita di caserma. La ribellione mentale del giovane soldato appare essere indicativa di una refrattarietà più generale alla vita militare, ai suoi codici, alle sue regole e agli obblighi che impone. Nel caso specifico la radice di questo disagio è individuato nella predisposizione familiare, ma abbiamo detto quanto pesi su simili diagnosi l’ambiguità delle categorie diagnostiche e il consolidato riferimento a paradigmi interpretativi basati su diffidenza e disprezzo. Questo perché ogni insofferenza verso le gerarchie e la disciplina metteva in crisi l’ordine militare, certo, ma più in generale la funzione educativa che l’esercito, insieme alla scuola e alla parrocchia, svolgeva nell’edificazione del cittadino. Anche per tale ragione la psichiatria guardava con particolare sospetto a queste forme di insubordinazione mascherata, ritenute tipiche di caratteri deboli, indisciplinati, poco virili e tendenti all’effeminato. Compito della psichiatria stessa, in questa congiuntura, è anche quello di salvaguardare e proteggere l’esercito, la sua funzione pedagogica nei confronti del carattere nazionale, dalle tare che si possono diffondere a causa di questi soggetti refrattari all’ordine e alla disciplina. La difficoltà dell’obiettivo è programmaticamente riassunta da Tamburini, Ferrari e Antonini, tra gli alienisti più celebri dell’epoca, che in uno studio dedicato all’assistenza agli alienati così si pronunciano:
«Per quanta diligenza si impieghi nell’attuazione delle norme rigorose del reclutamento, col coscienzioso esame dell’inscritto di leva, entreranno sempre nelle file dell’Esercito candidati alle psicopatie e alla delinquenza, rappresentati soprattutto da individui a fondo mentale debole e a costituzione antropologica non eccessivamente abnorme e quindi difficilmente valutabile. Naturalmente si dovranno escludere a prima vista dal servizio gli idioti, ma non si potrà chiudere il varco a tutti i deboli di mente, anche se questi fossero passati per la trafila dell’osservazione, perché il rilievo di certe anomalie della mente e delle minime aberrazioni morali, si sottrae sovente ad ogni indagine, né si può effettuare sempre con i reattivi mentali e morali che si possono avere a disposizione»41
Questi soggetti sono tanto pericolosi per la società quanto difficili da individuare, questo attestano le parole riportate nel passo a suggello preventivo di un’opera di igiene sociale necessaria ma complicata. Le cartelle cliniche dei soldati evidenziano, pur nella essenzialità della documentazione prodotta, anzi proprio a partire da essa, la politica psichiatrica adottata per gestire questi casi di insofferenza alla vita militare: delegittimare il carattere sociale del problema e “costruire” la figura del “soldato degenerato” è il modo privilegiato per cercare di perimetrare un problema e ridurlo alla dimensione individuale del “non adatto” alla vita militare. A fronte di una necessaria opera di pedagogia nazionale, la psichiatria militare doveva svolgere una profonda azione di eugenica negativa, selezionando e individuando gli elementi da scartare, poiché ritenuti inutili alle esigenze biopolitiche richieste dalle trasformazioni in atto. Ciò troverà piena attuazione durante la Grande Guerra, quando l’esercito verrà trattato e considerato come un laboratorio sperimentale per la selezione e l’esclusione dei soggetti anormali, vale a dire tutti quei soldati che, con il loro atteggiamento di rifiuto, si pongono al di fuori della norma che pretende militari ubbidienti, efficaci, vigorosi nel corpo e nello spirito e, soprattutto, “virili”. Le parole di Placido Consiglio, medico siciliano nominato nel luglio 1916 ufficiale per meriti di guerra, autore di diversi saggi di psichiatria militare, attestano questo progetto di profilassi sociale già nel 1912:
«Però, queste nuove esigenze importano novelle richieste, più complesse, più varie e più elevate, di energie al soldato moderno, e quindi un adattamento superiore, tanto più (è bene ripeterlo) nella coscienza – in via di formazione – delle funzioni sociali che l’esercito può, e deve compiere, nei paesi democratici della educazione del carattere alla lotta contro l’anomalo: ed allora, elevato il tono dell’adattamento, maggiore sarà il numero dei dismorfici, e quindi più ampia la necessità della selezione»42
Si seleziona togliendo innanzitutto legittimità ai sintomi lamentati dai soldati, o riconducendoli, come nella vicenda vista, a tare familiari. In entrambi i casi il destino che attende i soldati è il ritorno rapido alla caserma di provenienza e il suo recupero in vista dei doveri verso la nazione. Proprio come avvenne nella vicenda di Antonio S.
1 Cfr. S. Montaldo, L’antropologia criminale e l’esercito italiano (1884-1920), in (cura di G. P. Brizzi), E. Signori Minerva armata. Le università e la Grande guerra, Bologna, Clueb, 2017, pp. 175-203
2 Sul ruolo di J.M.Charcot in riferimento al trauma psichico vedi: M. S. Micale, Jean-Martin Charcot and les névroses traumatiques: From Medicine to Culture in French Trauma Theory of the Late Nineteenth Century in M. Micale-P. Lerner, Traumatic Pasts. History, Psychiatry, and Trauma in the Modern Age, 1870-1930 Cambridge University Press, Cambridge 2001, pp. 115-139.
3 Cfr. C. Bonomi, Breve storia del trauma psichico dalle origini a Ferenczi (1870-1930 ca) in C. Bonomi, F. Borgogno, La Catastrofe e i suoi Simboli. Il contributo di Sándor Ferenczi alla storia del trauma, UTET Libreria, Torino 2001, p. 76.
4 Cfr. M.MIcale, Jean-Martin Charcot and les névroses traumatiques: From Medicine to Culture in French Trauma Theory of the Late Nineteenth Century, in M. Micale-P. Lerner, Traumatic Pasts. History, Psychiatry, and Trauma in the Modern Age, 1870-1930…cit., p. 122. Vedi inoltre il classico lavoro di Antonio Gibelli: L’ officina della guerra. La grande guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Bollati Boringhieri, Torino 1991.
5 Cfr. P.Consiglio, La medicina sociale nell’esercito, estratto dal “Giornale di Medicina Militare”, [Maggio 1914], Tipografia Entico Voghera, Roma 1914.
6 Cfr. F. Stok, La formazione della psichiatria, Pensiero scientifico, Roma 1981.
7 Per la categoria di «anormale» vedi: M. Foucault, Gli anormali. Corso al Collège de France (1974-1975), trad.it. di V. Marchetti e A. Salomoni, Feltrinelli, Milano 2000.
8 Cfr. C.Lombroso, L.Bianchi, Misdea e la nuova scuola penale, ed. Bocca, Torino 1884. Il volume, scritto in occasione della strage con Leonardo Bianchi, oltre a essere una difesa delle tesi dell’antropologia criminale, punta al riconoscimento del valore della perizia criminologica in simili processi.
9 Sulla categoria di “degenerazione” vedi: M. Simonazzi, Degenerazionismo. Psichiatria, eugenetica e biopolitica, Bruno Mondadori, Milano 2013.
10 S. Montaldo, L’antropologia criminale e l’esercito italiano (1884-1920)…cit., p.180.
11 Ivi, p.181.
12 Cfr. A.Tamburini, G.C.Ferrari, G.Antonini, L’assistenza degli alienati in Italia e nelle varie Nazioni, UTET, Torino 1918, p.661.
13 Ibidem.
14 Cfr. B.Bianchi, La follia e la fuga…cit., p.72.
15 Cfr. Guida Oggero della Provincia di Cuneo. 1915- Anno XII, Tipografia Oggero, Cuneo 1915
16 Cfr. N. Labanca (a cura di), Fare il soldato. Storie del reclutamento militare in Italia, Unicopli, Milano 2008.
17 Archivio dell’Ospedale Neuropsichiatrico di Racconigi (d’ora in avanti AONR), Serie IX.1.1, UA 1142, Registro cronologico dei ricoverati e del loro movimento. Degenti coatti 1910-1917.
18 AONR, Serie IX.1.1, UA 1143, Registro cronologico dei ricoverati e del loro movimento. Degenti coatti, anno 1914. I numeri di matricola sono rispettivamente: 8875,8938,91069140,9141.
19 Archivio della Provincia di Cuneo (d’ora in avanti APCN), «Atti del Consiglio Provinciale Cuneo 1914», Sessione ordinaria, Tipografia Cooperativa, Cuneo 1915, Allegato n.1-Quadro dei movimenti dei ricoverati, p.224 e «Atti del Consiglio Provinciale Cuneo 1915», Sessione ordinaria e Straordinaria, Tipografia Cooperativa, Cuneo 1916, Allegato n.1-Quadro dei movimenti dei ricoverati, p.211.
20 Cfr. G.FUNAIOLI, Organizzazione del servizio medico-psichiatrico nell’esercito, op. cit., p.339. Ancora nel 1915 il tema non era stato affrontato dall’esercito. Infatti, se la Marina Militare, già nel 1910 si era organizzata con un reparto psichiatrico presso l’ospedale di La Spezia, l’Esercito, ancora allo scoppio della guerra, non aveva predisposto reparti psichiatrici specifici e mostrava tutti i limiti gestionali di un sistema pachidermico che faceva fatica a considerare gli alienati militari come qualcosa di diverso che dei criminali da recludere in manicomio.
21 ASONR, Archivio sanitario, cat.9 – classe 2, cartella clinica matr. n. 8719.
22 ASONR, Archivio sanitario, cat.9 – classe 2, cartella clinica matr. n. 8719, Polizza medica.
23 Ibidem.
24 ASONR, Archivio sanitario, cat.9 – classe 2, cartella clinica matr. n. 8719, Anamnesi in Tabella nosografica.
25 ASONR, Archivio sanitario, cat.9 – classe 2, cartella clinica matr. n. 8719, Anamnesi in Tabella nosografica.
26 Ibidem.
27 ASONR, Archivio sanitario, cat.9 – classe 2, cartella clinica matr. n. 8719, Esame psichico in Tabella nosografica.
28 Ibidem.
29 ASONR, Archivio sanitario, cat.9 – classe 2, cartella clinica matr. n. 8719, Diagnosi in Tabella nosografica.
30 ASONR, Archivio sanitario, cat.9 – classe 2, cartella clinica matr. n. 8719, Diari psichici e fisici in Tabella nosografica, 3 Luglio 1913.
31 Ibidem.
32 Ibidem.
33 ASONR, Archivio sanitario, cat.9 – classe 2, cartella clinica matr. n. 8719, Diari psichici e fisici in Tabella nosografica, Luglio 1913.
34 ASONR, Archivio sanitario, cat.9 – classe 2, cartella clinica matr. n. 8719, Foglio di licenziamento definitivo, 11 Luglio 1913.
35 Cfr. L. Benadusi, Ufficiale e gentiluomo. Virtù civili e valori militari in Italia…cit., p.38.
36 Cfr. P. Consiglio, Cesare Lombroso e la medicina militare in “Rivista d’Italia”, 1911, p.78.
37 Cfr. L. Benadusi, Ufficiale e gentiluomo. Virtù civili e valori militari in Italia…cit., p.38.
38 Ivi, p.36.
39 Cfr. P.Cammarano, Storia dell’Italia liberale, Laterza, Roma-Bari 2011, p.31.
40 Cfr. P. Consiglio, Cesare Lombroso e la medicina militare… cit., p.78.
41 Cfr. A. Tamburini, G. C. Ferrari, G. Antonini, L’assistenza degli alienati in Italia e nelle varie nazioni, Utet, Torino 1919, p. 661.
42 Cfr. P. Consiglio, Studi di psichiatria militare, Parte I, in “Rivista sperimentale di freniatria”, vol. 38, a. XLIX, 1912, p. 373
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