Ospedale psichiatrico Santa Maria della pietà:Eugenetica e fascismo
Nel 1978, grazie alla legge Basaglia, detta anche legge n.180, la maggior parte dei manicomi italiani venne chiusa in favore di un’ospedalizzazione pubblica volta a garantire cure mirate e migliori per quei pazienti fino ad allora rinchiusi e segregati. La legge fu ideata anche per fare in modo che il degente fosse trattato in maniera più umana dal personale specializzato, e per evitare che i casi di “stregoneria” continuassero a proliferare impunemente. Non di rado, infatti, gli internati erano semplicemente individui colpevoli di pensare fuori dal coro e spesso, le più soggette a talune imposizioni psichiatriche, erano le donne. Non è un caso che durante il ventennio fascista, i manicomi si fossero riempiti di “libertine, smorfiose e madri snaturate”. Il manicomio Santa Maria della Pietà, detto anche “Hospitale de’ poveri forestieri et pazzi dell’Alma città di Roma”, chiuse i battenti solo nel 1999. Dopo quasi cinque secoli di operatività, l’ospedale psichiatrico della città eterna aprì le sue porte al pubblico, nel 2000, divenendo “Museo della Mente”. Il manicomio presentato in queste pagine è il compendio dei numerosi manicomi presenti nel Paese durante il periodo descritto. Alla fine degli anni Trenta, Hitler fu l’artefice di una regressione ideologica che portò a considerare ogni disabile improduttivo e inutile per la società. Se dopo la Grande Guerra i disabili avevano iniziato ad acquisire una connotazione sociale differente, a seguito dell’alto numero di menomati che il conflitto bellico aveva prodotto, con il nazismo tutto questo cessò di esistere e progredire. Fu promulgato un decreto ministeriale che imponeva a chiunque, in particolar modo al personale sanitario, di segnalare i minori nati con malformazioni, deformità o patologie psicofisiche. Dopo essere stati ricoverati, i minori erano internati e uccisi o lasciati morire di fame. Successivamente, si passò ai campi di concentramento e alle camere a gas. L’avvento dell’eugenetica fu alla base del pensiero nazista e misogino, che portò a sua volta alla sterilizzazione coatta preventiva. Galton, cugino di Darwin, sosteneva come la sua scienza portasse le popolazioni ad accrescere i propri benefici, eliminando di fatto le zavorre inutili, intese come ogni tipo di disabilità. Darwin non accettò mai questa trasposizione delle sue teorie, ma l’eugenetica trovò forti sostenitori, tra cui Down, lo stesso che diede il nome alla sindrome da lui scoperta. Interessante sapere che queste teorie presero piede in tutto il mondo, attecchendo non solo nella Germania nazista,ma anche negli Stati Uniti.Fu John Langdon Down, nel 1866, a fornire per la prima volta una descrizione di quei bambini “immaturi rappresentanti della razza mongola” appartenenti a una “regressione verso una tipologia orientale primitiva”. Il termine “mongoloide”, coniato appunto dal medico inglese J.L. Down, fu di uso comune nell’ambiente scientifico fino ai primi anni Settanta. Tale termine indicava le persone nate con la trisomia 21, anche detta sindrome di Down, e traeva origine dalla somiglianza dei loro tratti somatici con quelli delle popolazioni mongole. Nel 1909 Shuttleworth condusse una ricerca a seguito della quale notò una correlazione tra età materna e incidenza della sindrome e questo portò a svariate interpretazioni, talvolta fantasiose e distorte. Nel 1932 Waarsburg ipotizzò una base genetica, ma fu solo nel 1959 che ci fu una svolta nella ricerca, quando Lejeune individuò quarantasette cromosomi nei soggetti con la sindrome. Dietro insistenza del governo mongolo, nel 1965, l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) decise di sostenere solo l’uso del termine “sindrome di Down”, abbandonando “mongoloide” o “mongolismo”, con larga accettazione della società che vedeva in essi un’offesa e un’azione discriminatoria nei confronti dei bambini affetti da tale condizione cromosomica. Già nel 1961, tuttavia, un gruppo di genetisti aveva sollevato la questione chiedendo alla rivista britannica Lancet di utilizzare la definizione “sindrome di Down”, spiegando come il termine “mongoloide” fosse imbarazzante, fuorviante e da eliminare. Una cosa importante da sottolineare è che la sindrome di Down è un’alterazione cromosomica, non una malattia. Per questa ragione è sbagliato affermare “è affetto da…” o “è una persona Down.” Perché Perché oltre a non essere una malattia, la sindrome non è neanche una razza. Né un aggettivo."
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