Sindrome di Stoccolma e identificazione per sopravvivenza


 

“Con Sindrome di Stoccolma s’intende un fenomeno psicologico, per cui un ostaggio instaura un rapporto emotivamente positivo con i suoi sequestratori. Questo può implicare che la vittima simpatizzi con i criminali e cooperi con loro” – così sta scritto nel dizionario enciclopedico. Una diagnosi che io rifiuto decisamente. Perché, per quanto gli sguardi di coloro che buttano là questo concetto possano essere pieni di compassione, l’effetto è terribile. Questo giudizio rende la vittima, infatti, due volte vittima, perché la priva dell’autorità di interpretare la propria storia; gli avvenimenti più importanti della sua esperienza vengono così liquidati come le aberrazioni di una sindrome. E proprio quel comportamento, che ha contribuito in modo decisivo alla sopravvivenza del prigioniero, viene giudicato quasi sconveniente. Avvicinarsi a un criminale non è una malattia. Crearsi un bozzolo di normalità nell’ambito di un crimine non è una sindrome. Al contrario. È una strategia di sopravvivenza in una situazione senza via di uscita, ed è più fedele alla realtà di qualsiasi piatta categorizzazione dei criminali in bestie sanguinarie e delle vittime in agnelli indifesi, davanti alla quale la società si ferma volentieri.Il termine fu coniato dopo una rapina a una banca di Stoccolma, nel 1973. Per cinque giorni i rapinatori tennero in ostaggio quattro impiegati. Con stupore dei media, al momento della liberazione, ci si accorse che gli ostaggi avevano più paura della polizia che dei rapinatori, e che avevano assoluta comprensione per questi ultimi. Alcune delle vittime chiesero pietà per i rapinatori e fecero loro visita in prigione. L’opinione pubblica non mostrò alcuna indulgenza per questa “simpatia” verso i criminali, e definì patologico il comportamento delle vittime. Giustificare i rapinatori era una forma di perversione, così diceva la diagnosi. La novella malattia da quel momento portò il nome di “sindrome di Stoccolma"

Non è facile spiegare cosa provochino in un essere umano l’isolamento, le percosse, le umiliazioni. Dire come, dopo aver subito tanti maltrattamenti, già il rumore di una porta susciti un tale panico che si non riesce più a respirare, e tanto meno a correre. Raccontare come il cuore si metta a battere più velocemente, come il sangue ronzi nelle orecchie e poi, improvvisamente, nel cervello si spenga un interruttore e rimanga soltanto un senso di paralisi. Si diventa incapaci di agire, la mente si arresta. La sensazione di paura della morte è memorizzata per sempre, tutti i dettagli della situazione, nella quale si è provato per la prima volta questo sentimento – odori, rumori, voci – sono saldamente ancorati nel subconscio. Se uno di essi ricompare, per esempio una mano alzata, la paura ricompare

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